Separatezza
1 Ottobre 2010Marcello Madau
Decidere liberamente del proprio destino senza dipendere da altri. Una bella scommessa, poiché non è scontato che in un mondo così interdipendente nelle sue parti l’indipendenza sia sempre ed ovunque uno strumento utile alla liberazione e alla democrazia.
Se ne torna a discutere in Consiglio Regionale. Prima di vedere da vicino cosa emerge sul tema dell’identità e della cultura, colpisce come una discussione così importante venga affrontata da soggetti inadeguati. Una classe politica che non è stata in grado di gestire l’autonomia ora alza il tiro e dice che la sovranità è la risposta all’attuale crisi dello stato-nazione italiano.
Siamo certi che l’attuale crisi, ben oltre quella dello stato-nazione italiano, non sia quella della democrazia e dell’attuale capitalismo? Una crisi che coinvolge persino i nuovi e decantati modelli neo-nazionalisti come quello irlandese?
Ma il quadro sarebbe troppo vasto. Allora un breve sussulto, e un dibattito surreale, lo ha creato la richiesta di messa in mora giuridica della rinuncia delle prerogative istituzionali sarde operata nel 1847 a favore del Piemonte: suggerirei un incontro – sarebbe una sponda favorevole – con il governatore piemontese Roberto Cota, favorito dalla sezione sardo-leghista di Trinità d’Agultu.
Non credo in realtà che per la tradizione comunista ci debbano essere preclusioni ideologiche sull’indipendenza: qualche riflessione teorica il nostro campo l’ha effettuata, ed è curioso vedere che molte delle definizioni di nazione impiegate in Consiglio regionale si rifanno alla vecchia e superata morfologia stabilita da Lenin. L’elemento decisivo ci sembra stia nel valutare se l’indipendenza possa essere davvero, più che un fine ed un riflesso narcisistico separatore, strumento per l’emancipazione dell’uomo e dell’ambiente dall’alienazione e dallo sfruttamento, costruendo su tali basi i processi di autocoscienza storica che chiamiamo identità.
Dell’identità, e della cultura ad essa così fortemente collegata (i disinvolti impieghi semantici dei nostri politici, spia di scarsa confidenza col tema, non aiutano a chiarire), come se ne sta parlando?
La questione non è semplice, ma temo intanto che una sua soddisfacente definizione rischi di allontanarsi fraintendendo i contesti formativi. Intanto quelli moderni e contemporanei, laddove si sottolinea come la crisi del Novecento sia soprattutto un conflitto fra identità nazionali, forme statuali in crisi e globalizzazione, piuttosto di considerare tale conflitto aspetto di un dramma ben più profondo. Laddove non si coglie che l’attacco ai beni culturali e al paesaggio è globale, nella logica capitalistica; non degli ‘italiani’ come affermano i sardisti. Verrebbe da chiedere a Maninchedda se il paesaggio urbano di Tuvixeddu sia stato devastato dal colonialismo italiano o da capitalisti (peraltro sardi).
Permeato dall’affanno di sostenere la nostra diversità scorre un dibattito vecchio, formale, senza vitalità, con molte frasi di stampo anni Settanta; con linguaggio da archeologo, un manufatto di matrice stanca.
Non vi è neppure traccia della discussione sulla ‘forma’ etnocentrica o meticcia dell’identità, problema che oggi pare rilevante. Figurarsi se si mette in dubbio il termine ‘diversità’ (o quello quasi gastronomico di ‘specialità’), se può apparire almeno il dubbio che lo stesso termine meticciato, nel suo generoso proporre identità multiculturali, o plurali come si ama dire, sia lo specchio di un’accettazione del concetto della razza. Magari la lettura di Logiche meticce e Connessioni di Jean-Loup Amselle potrebbe essere di aiuto.
Credo che sia da condividere quanto detto in consiglio regionale da Radouan Ben Amara: la risposta non può essere un “rigurgito nazionalitario, simile al leghismo, simile al nazionalismo”, quanto la ricostruzione di un legame neo-meridionalista.
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Le rare ‘prese in carico’ del patrimonio culturale sono associate a direzioni geografiche o ideologiche selezionate: Mario Floris pensa ad: “una vera ed unica piattaforma culturale ed economica dell’Europa e dell’Italia proiettata verso i paesi afro-asiatici”. Il PDL evoca le “bimillenarie radici cristiane della società sarda, punto di approdo del lungo cammino del suo popolo”: frase papalina già nel programma elettorale di Cappellacci per quelle elezioni poi vinte – niente male per un centro-destra nazionalitario – da Silvio Berlusconi, a cui vennero offerte, come nelle vere sconfitte, le insegne dei Quattro Mori. Assieme, le due proposte sembrano comporre una nuova crociata: un’Europa e una Sardegna cristiana per evangelizzare e conquistare i mercati di Africa e Asia.
Ed è anche significativo il concetto di ‘punto di approdo del lungo cammino del suo popolo’, paradossale nel suo darwinismo per dei convinti credenti, dal quale consegue l’inferiorità degli antecedenti precristiani: preistorici, nuragici, fenici e romani. La visione antropologica non supera l’Ottocento, simile, ma assai meno elaborata, al ‘survival’, la ‘sopravvivenza’, di Tylor. Ma il survival si può recuperare nel ‘mito’ post-tribale commerciale, ed ecco il filo-atlantideo Nur.At.
Attorno a questo quadro politico di destra ronzano copiose produzioni di esoterismi e falsi archeologici proposti da vittime incomprese della scienza colonialista. In Padania, con la favola di Alberto da Giussano, è già successo. Noi, con un pullulare di invenzioni ridicole, siamo sulla buona strada.
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Neppure il PD e la sinistra danno un quadro incoraggiante. La sostanza delle linee culturali del PD (quelle soriane, perché delle altre non vi è traccia), assenti nel dibattito si presuppongono da segni già noti: il pasticcio della Limba Sarda Comuna, l’idea del passaggio delle competenze sui beni culturali e quelli ambientali alla Regione Sarda senza costruire veri strumenti indipendenti, ma rischiando di consegnare nel frattempo a potenti gruppi esterni (come nel tentativo per le pregiate zone minerarie) la gestione di musei ed aree archeologiche. La promozione del mito di Atlantide nel Piano di Sviluppo Turistico del 2006. antecedente di Nur.At. Sarà forse una coincidenza casuale, ma curiosa, che nel dibattito regionale l’onorevole Vargiu dia un riconoscimento positivo a Renato Soru.
E a sinistra, smarrito il contatto con il mondo del lavoro vecchio e nuovo, l’occasione di riqualificarsi cavalcando l’indipendentismo appare per molti ghiotta, e gli approfondimenti culturali e identitari latitano. Mentre seguiamo da anni – pur non condividendo le linee indipendentiste – il serio tentativo di IRS di coniugare liberazione, identità, autogoverno, non-nazionalismo verso una ‘nazione’ democratica, inclusiva ed aperta, nella sinistra ‘neo-nazionalitaria’ tale riflessione, ad onta dell’improvvisa apparizione di molto combattivi documenti, dalle sezioni, nelle assemblee o nei luoghi digitali della sinistra ci è sembrata assente o assai debole.
Può darsi che i nuovi media, anche via sms, abbiano avuto il sopravvento sulla costante fatica di fisiche assemblee partecipate e sudate fra militanti, dove convincere o essere convinti, e costruire nel tempo un dibattito reale.
Si discute staccati da un popolo sardo molto evocato, che pare altrove.
Si annunciano propositi di coinvolgerlo, ma i nostri rappresentanti, così malcerti nel definirlo, lo troveranno?
Non a torto Nicola Rassu del PDL è spaventato dal “ silenzio assordante che sta accompagnando questi dibattito, silenzio del mondo dell’impresa e di quello culturale”. Manca all’appello dei silenzi – ma non possiamo chiedere troppo a Rassu – quello operaio, che peraltro trova drammatiche forme espressive mentre le fabbriche sarde continuano a chiudere.
Ma non si preoccupi l’ex- sindaco di Torralba: alla fin fine ha ragione quella vecchia volpe democristiana di Felicetto Contu quando dice “ho fiducia che quest’assemblea sappia difendere la nostra identità politica”.
11 Ottobre 2010 alle 12:17
Dover ringraziare un commentatore per l’onestà intellettuale con cui affronta un tema è sintomatico dei tempi e del contesto politico/culturale in cui viviamo. Ma lo faccio senz’altro.
È vero, il dibattito in consiglio regionale e sulla stampa ha dato ben pochi spunti interessanti. Resta forte l’impressione che alla classe politica/dominante sarda non interessi affatto il miglioramento delle condizioni di vita dei sardi. L’elaborazione teorica e la prassi delle varie forze partitiche sarde (pressoché tutte di emanazione italiana o dipendenti da centri di potere che hanno la propria sede fuori dall’Isola) sono ormai a livelli penosi.
iRS appare un’eccezione abbastanza clamorosa solo perché si staglia su un panorama desolato e silente. Il che ci deprime nel momento stesso in cui dovrebbe inorgoglirci.
Vorrei però porre qui di passaggio una questione che mi riprometto di sviluppare meglio, in risposta a questo pezzo e ad altri analoghi di queste pagine.
È proponibile un discorso di emancipazione sociale, economica e culturale della Sardegna senza affrontare il tema dell’autogoverno e della sovranità? Secondo noi no. E proprio per via delle interdipendenze che ci collegano col resto del mondo. Cui ora come ora non ci è dato di partecipare come soggetti storici.
In proposito, per es.: vai al seguente contributo, selezionando questo link ; ma anche: HEPBURN, in Regional & Federal Studies, oct. 2008; o ancora: ONNIS et AL. su European Planning Studies, sept. 2009.