Cronistoria dell’89 cagliaritano
16 Maggio 2017Francesco Cocco
Era venerdì 11 maggio 1906 quando venne proclamato lo sciopero generale in tutta Italia e questa circostanza poteva essere un facile volano per dare maggior forza alle rivendicazioni locali, lo scontento era andato accumulandosi negli ultimi tempi. Quattro mesi prima, a metà gennaio, si era tenuta un’assemblea dell’associazione impiegati civili che aveva chiesto interventi per limitare la speculazione sui prezzi. Ne era seguita la nomina di una commissione presieduta dal prof. Cesare Curti col compito di avanzare proposte in grado di porre un freno al “caro dei viveri”. Il 24 febbraio inoltre la Lega dei lavoratori del porto, che contava più di trecento aderenti, aveva proclamato uno sciopero per ridurre le ore giornaliere di lavoro da 15 a 9 ed un aumento del salario da 3,50 a 5 lire. Il 25 marzo erano stati i commessi dei negozi a scendere in piazza per ottenere il riposo festivo. L’agitazione dei fornai alla vigilia dello sciopero generaleera quindi l’ ultima di una serie di agitazioni che sembrava non aver termine.
Ora erano i lavoratori della Manifattura Tabacchi (l’88% dei dipendenti formato da donne) a proclamare una manifestazione contro il caro dei viveri. Nel darne l’ annuncio il quotidiano “Il Paese” del 12 maggio aveva usato espressioni di sostanziale incoraggiamento: “Domattina alle 10 gli operai e le operaie della Manifattura dei tabacchi terranno un comizio nel bastione di San Remy per protestare contro il rincaro dei viveri. . . . nel mercato si esercita lo strozzinaggio su vasta scala: le querele, i lamenti, le proteste della stampa non hanno avuto la virtù di scuotere il grave sonno dalla testa delle autorità conniventi cogli speculatori mentre sarebbero dovuti intervenire, e molto prima d’ora senza alcun incitamento esterno, a togliere questo vergognoso stato di cose. Speriamo che al comizio di domani sorrida più lieta ventura, e la cittadinanza non mancherà di essere grata dell’esito ai promotori dell’agitazione che trova unanime il consenso ed il plauso”.
Al comizio di domenica 13 maggio, convocato nella nuova grande terrazza del Bastione, presero la parola il presidente della Commissione per il contenimento dei prezzi, prof. Curti, il repubblicano avv. Salvatore Diaz, il socialista avv. Efisio Orano e le sigaraie Boi, Marini e Nieddu. Le tre donne, il giorno prima, avevano fatto parte di una delegazione che si era recata in Municipio per protestare ed avanzare proposte contro l’aumento dei prezzi e il sindaco Bacaredda, durante l’incontro, aveva rivolto loro una frase ritenuta offensiva : “…. se le triglie costano due lire al chilo faccio tanto di cappello e compro baccalà”.
La frase riferita nel corso del comizio eccitò gli animi, anche perché era stato omesso di riportare quel “fate come me” che Bacaredda aveva posto a premessa della sua raccomandazione. Inoltre erano state respinte tutte le richieste avanzate il giorno precedente dalla delegazione. Tra le altre l’ eliminazione delle celle frigorifere che, consentendo di conservare le derrate, ostacolavano l’offerta finale a prezzi stracciati. Né era passata la proposta dell’ abolizione della “quarta regia” che imponeva di versare al fisco un quarto del pescato dello stagno di Santa Gilla, con conseguente aumento della parte restante messa in vendita.
A conclusione della grande assemblea popolare venne approvato per acclamazione il seguente ordine del giorno: ”La cittadinanza cagliaritana, radunata in comizio, delibera che sia provveduto urgentemente dal Comune di Cagliari contro il rincaro dei viveri, impegnandosi a mantenere viva l’agitazione fino a quando non sia appagato il desiderio della popolazione”. Venne nominata una delegazione, composta dagli avvocati Cao, Ferraris, Orano, da operaie ed operai, col compito di recarsi dal sindaco per illustrargli l’ordine del giorno e fargli assumere impegni conseguenti. Bacaredda, nell’incontro con la nuova delegazione, s’ impegnò ad aprire mercati liberi e punti vendita controllati dal Comune.
Lunedì 14 maggio, di buon mattino , venne affisso un manifesto in cui si annunciava l’istituzione, in via sperimentale, di due mercati liberi (uno in Piazza del Carmine e l’altro all’imbocco di Terrapieno) dove sarebbe stato possibile vendere qualsiasi genere senza pagamento di tasse municipali.
La notizia, divulgatasi rapidamente, inasprì l’animo dei venditori del mercato di Largo Carlo Felice. Si sentivano gravati di oneri da cui erano invece esonerati gli esercenti dei nuovi ” mercati liberi”. Di qui il loro rifiuto di pagare all’esattore municipale il tributo giornaliero dovuto per il punto-vendita. La reazione fu tale che un gruppo compatto di venditori circondò l’ufficio dell’esattore, provocando l’intervento delle guardie civiche, alle quali si aggiunse un drappello di agenti di P.S. al comando del delegato Viola. In risposta alle veementi proteste dei venditori e degli acquirenti, venne decisa la chiusura del mercato.
Il repentino quanto improvvido provvedimento di chiudere il mercato infiamma ancora di più gli animi. Si decide di formare un corteo e dirigersi verso la Manifattura Tabacchi, che nei giorni precedenti era andata assumendo un ruolo centrale nelle manifestazioni di protesta. Lo stabilimento è già presidiato da un imponente schieramento di carabinieri al comando del tenente colonnello Ponza di San Martino, che arringa la folla invitandola alla calma e come atto di distensione consente l’uscita dei lavoratori della Manifattura.
Si forma un corteo che, imboccata la via Cavour, raggiunge la Sezione Socialista, nella vicina via Porcile, per prendere la bandiera. In cima all’asta viene infissa una pagnotta a simboleggiare la lotta contro il “caro dei viveri”. La bandiera, impugnata dalla sigaraia Elvira Floris, sarà il riferimento dei dimostranti durante il percorso della manifestazione. La Floris avrà il ruolo di vessillifera anche nei giorni successivi: un implicito riconoscimento allo stabilimento divenuto simbolo della lotta. Nel frattempo sopraggiunge il dirigente socialista Efisio Orano che, affiancato dalla Floris, prende la direzione del corteo indirizzandolo verso la stazione delle Ferrovie Secondarie, situata nel viale Bonaria, e poi verso lo stabilimento di produzione del gas cittadino per invitare gli addetti a lasciare il lavoro ed unirsi a loro. Nel frattempo il numero dei dimostranti è andato aumentando per la presenza dei lavoratori usciti dagli stabilimenti industriali e artigianali che allora sorgevano numerosi tra il viale Bonaria e la Piazza San Cosimo. Si è inoltre aggiunta una gran folla accorsa da tutti i quartieri cittadini.
Ora migliaia di persone risalgono la via Nuova (attuale via Sonnino) per imboccare la via Iglesias e poi proseguire nelle vie Garibaldi, Manno, Piazza Yenne e via Azuni. Qui ha sede la sezione repubblicana, dove “qualcuno sale, prende la bandiera e va a raggiungere quella socialista, non senza aver prima infilato nell’asta una mezza pagnotta. E le due bandiere si muovono incontro ; si inchinano si salutano, si accoppiano un istante quasi a indicare che la disparità di ideali politici in quel momento viene assorbita dalla comunione degli ideali popolari. Uno scroscio di applausi interminabili saluta quel connubio delle bandiere , e si sventolano fazzoletti, si agitano cappelli, si grida evviva: qualcuno ne è anche commosso.” Il brano de L’Unione Sarda, è significativo per comprendere il clima di eccitazione che di lì ad un po’ sfocerà in tragedia.
Il corteo prosegue per via Portoscalas, raggiunge il Corso Vittorio Emanuele e di qui scende verso Viale San Pietro (attuale viale Trieste). Alle tredici e mezzo giunge alle “Ferrovie Reali”. La Stazione è presidiata da uno schieramento di soldati di fanteria al comando del capitano Caffiero.
Lo spettacolo dei fucili con le baionette inastate irrita i dimostranti. Lo giudicano un atto provocatorio al quale reagiscano con una fitta sassaiola. Si dà l’ordine di disinnestare le baionette e sembra tornare la calma. Ma è solo questione di minuti: riprende il lancio dei sassi che colpiscono il capitano dei carabinieri Gandini, un brigadiere ed un fante. Le forze dell’ordine vengono fatte ritirare nel magazzino delle spedizioni in attesa che arrivino rinforzi.
La folla è ormai incontrollabile. Il tentativo dell’avv. Orano di prendere la direzione della manifestazione, nata inopinatamente da una situazione sociale di grande tensione, si è rivelato vano. Dalla protesta, esasperata ma comunque pacifica, si è passati alla dimostrazione punitiva. Si vogliono colpire i simboli di quelle ritenute essere le cause degli alti prezzi e della miseria: i casotti daziari, la “quarta regia”, la linea tranviaria a vapore che collegando i paesi del Campidano di Cagliari col capoluogo ha messo sul lastrico i piccoli trasportatori coi tradizionali carri e carretti trainati da animali.
Il corteo prosegue verso il Ponte della Scaffa nelle cui vicinanze è il casotto della “quarta regia” e gli uffici della Ditta Trezza, appaltatrice dei Dazi di consumo, che riporteranno danni per la cifra, allora veramente ragguardevole, di 10.000 lire. Verso le tre del pomeriggio, terminata la spedizione punitiva alla Scaffa, i manifestanti sono di nuovo davanti alle “ferrovie reali”. Intanto sono sopraggiunte consistenti forze militari e di polizia, schierate a difesa. Nel grande piazzale prospiciente la stazione è ormai assiepata una grande folla che urla, fischia, lancia improperi. Vola qualche sasso. Vengono dati i tre squilli di tromba che, per le norme di pubblica sicurezza, impongono all’assembramento di sciogliersi. Un drappello di carabinieri con la rivoltella in pugno respinge i dimostranti verso palazzo Vivanet e via Sassari, mentre un picchetto armato di fanteria li costringe ad indietreggiare verso la via G.M. Angioy.
Sono le tre ed un quarto del pomeriggio e la tragedia sta per compiersi. Dalla folla parte una fitta sassaiola che ferisce alcuni carabinieri, portando così al parossismo la tensione già alta. I militari reagiscono sparando. Cadano a terra decine di dimostranti feriti in maniera più o meno grave, due lo sono mortalmente : il manovale Giovanni Casula, colpito alle spalle da un proiettile fermatosi nella regione epigastrica, ed il fruttivendolo Rodolfo Cardia, raggiunto da una fucilata al cranio. Il primo di sedici ed il secondo di 19 anni moriranno durante la notte all’ospedale civile. Anche tra le forze dell’ordine si contano 25 feriti .
Respinti verso la via Roma, folti gruppi di dimostranti si abbandonano alla devastazione. Vengono gravemente danneggiate le carrozze della linea tranviaria a vapore che collega la città con Quartu Sant’Elena, passando per Pirri, Monserrato, Selargius e Quartucciu.
La vista del sangue in un primo momento eccita gli animi, poi lentamente subentra la calma. Una catarsi collettiva, una presa di coscienza della tragedia che ha colpito Cagliari. Vi sono molti feriti gravi e si teme per la loro vita, le famiglie dovranno subire le conseguenze dell’invalidità dei loro congiunti, vi saranno arresti e a lungo verranno meno i pochi mezzi di sostentamento. Nell’ immediato bisogna ricomporsi per consentire ai soccorritori di compiere la loro opera e trasportare i feriti all’ospedale. In piccoli gruppi i dimostranti lasciano i luoghi della battaglia.
Sono trascorse due ore dai tragici fatti della stazione, migliaia di persone si sono dirette verso il bastione San Remy , ormai eletto a spazio cittadino d’incontro e di confronto, come era avvenuto nel giorno precedente. Prendono la parola l’avvocato Orano, il prof. Guidi, la sigaraia Nieddu e, dopo aver espresso una vibrata protesta contro l’eccidio e rivolto un invito alla calma, propongono una giornata di sciopero per l’indomani. La proposta viene accolta con un unanime applauso. Si delibera anche di ritrovarsi il giorno dopo alla sette del mattino.
Martedì 15 maggio. Una consistente moltitudine comincia ad affluire al Bastione con largo anticipo. Giungono folte presenze di abitanti dei paesi del Campidano. Attorno alle otto si apre il comizio: prendono la parola l’avv. Orano, l’avv. Umberto Cao, il prof Guidi, l’operaio Gallotti, l’avv. Salvatore Diaz. Dopo il rinnovo delle istanze dei giorni precedenti, si avanza la nuova richiesta dell’ applicazione delle leggi sul lavoro e sulla istruzione obbligatoria, la municipalizzazione di alcuni servizi comunali. Vengono chieste le dimissioni dell’intero Consiglio comunale. Si decide anche di ritrovarsi alle sedici per fare il punto sulla situazione.
Una delegazione si reca in Municipio e, assente il sindaco, presenta le richieste all’assessore Valle. Intanto la gran folla dei dimostranti sciama verso la piazza e le strade attorno al palazzo municipale ed alla Prefettura. A gran voce viene reclamata la liberazione dei manifestanti arrestati il giorno precedente. Richiesta che viene accolta dal procuratore generale del re, comm. Fois, grazie all’intermediazione del colonnello Ponza di San Martino e del consigliere reggente la Prefettura, cav. De Odeardi.
Il 15 maggio è il giorno del saccheggio dei casotti daziari, che sorgono numerosi nei punti d’ingresso alla città, e del danneggiamento della stazione tranviaria di San Mauro dove vengono rovesciati e distrutti tre vagoni carichi di sabbia e divelto un lungo tratto di binario.
Al comizio delle ore 16 l’avv. Diaz legge una lettera fatta pervenire da Baccaredda in cui è scritto:” ..nella fiducia di ridare la calma alla città, il Sindaco e la Giunta hanno deliberato di presentare al Consiglio le dimissioni e sin da questo momento si dichiarano dimissionari“. L’avv. Orano, il prof. Guidi, l’avv. Diaz, considerata la vittoria ottenuta con le dimissioni della Giunta, invitano alla ripresa del lavoro. Ma la proposta cade nel vuoto e viene decisa la prosecuzione dello sciopero. E’ la chiara riprova che la dirigenza socialista, repubblicana e radicale aveva tentato invano di dare una guida ad una sommossa improvvisata e priva di una chiara linea organizzativa. I caratteri della jacquerie hanno finito per prevalere sulla nuova strategia della lotta politica e sindacale che anche in Sardegna cominciano ad affermarsi.
Mercoledì 16 maggio è la giornata della contromanifestazione organizzata dal leader dei commercianti, Guido Costa. Un folto corteo formato da negozianti, artigiani,impiegati parte da Piazza Martiri e passando per via Manno, Largo Carlo Felice, il Corso arriva allo stabilimento Merello. Di qui si torna indietro ripercorrendo lo stesso itinerario. Non sono mancati momenti di tensione quando la contromanifestazione incontra nella via Manno un folto gruppo di scioperanti, ed è la presenza delle forze dell’ordine ad impedire che vi siano gravi conseguenze. Anche gli slogan esprimono una forte contrapposizione: “viva l’esercito”, “viva l’ordine”, “abbasso la teppa”. Ma sono soprattutto le parole conclusive di Guido Costa, a darci la dimensione del livello di scontro sociale quando invita ” tutti i presenti a riunirsi, armati, a qualunque ora in Piazza Martiri, poiché i commercianti, ad evitare gli atti di teppismo, la rovina del commercio, spareranno sulla folla” (da L’Unione Sarda del 17 maggio). Dove quel “spareranno sulla folla” ha il suono sinistro della violenza, ed è ben lontano dagli inviti alla calma rivolti da Orano, Guidi , Diaz agli scioperanti adunati al Bastione.
Era l’emergere di due anime della città che, al di fuori di schieramenti politici precostituiti ed in modo trasversale , si confronteranno a lungo: una chiusa, fortemente arroccata ad una visione isolazionista, spesso sprezzante nei confronti del “contado”; ed una aperta, favorevole al confronto, attenta a costruire la dimensione di una civile e moderna comunità urbana.
La pacificazione venne “ristabilita” facendo affluire in città 5000 tra militari e agenti delle forze dell’ ordine, quasi 1 ogni 10 abitanti. La via seguita fu quella della repressione con centinaia di arresti, compresi quelli di coloro che, come gli avvocati Orano, Diaz ed il prof. Guidi si erano adoperati perché la protesta si svolgesse con modalità pacifiche.
Il lavoro riprenderà lentamente nei giorni successivi, dopo che le dimissioni della Giunta e la nomina, il 16 maggio, del commissario prefettizio Angelo Sanguino avevano allontanato dalla scena politica un gruppo di governo della città, imputato delle gravi difficoltà nella vita quotidiana, sebbene stesse avviando la società cagliaritana verso nuovi orizzonti di crescita economica e sociale.
Lo sciopero, già dal 15 maggio, aveva prodotto sollevazioni popolari nei centri dei dintorni, nelle zone minerarie, e gli effetti erano giunti sino al “Capo di sopra”, come ancora nei primi decenni del Novecento venivano chiamati i territori delle province di Sassari e Nuoro. Nei paesi collegati a Cagliari dalla linea tranviaria a vapore si ebbe l’assalto alle stazioni e la distruzione di vagoni e binari. A Monserrato “furono spezzati i fili telegrafici e telefonici , ne vennero abbattuti i pali,venne incendiata e saccheggiata la stazione del tram, furono incendiati quattro vagoncini, strappati gli scambi ed i binari, assaltato l’ufficio del dazio e distrutti i casatti”.
Ancora più violenta la sollevazione popolare a Quartu S.Elena. Presi d’assalto e dati alle fiamme la stazione tranviaria e l’annesso ristorante. Distrutte cinque locomotive e incendiati trentacinque vagoni. A stento il capo deposito, Giuseppe Massassi, potè salvare sé e la famiglia.
Elevatissimo il tributo di sangue pagato da Cagliari, in qualche modo contenuto rispetto a quello delle zone minerarie: 6 morti a Villasalto, 1 a Gonnesa, 1 a Nebida. Anche un centro agricolo del centro Sardegna, Bonorva, ebbe una vittima.
Il sangue dei morti e dei feriti aveva sopito le antiche rivalità tra “Capo di sotto” e “Capo di sopra”. Per la prima volta Cagliari diventava veramente capitale dell’Isola , non solo in un formale quanto staccato ruolo istituzionale ma in quello, ben più pregnante, politico e sociale.