L’imbroglio del referendum sull’insularità

16 Novembre 2017
[Omar Chessa]

Da settimane è iniziata la raccolta di firme per richiedere l’indizione di un referendum regionale diretto a proporre l’inserimento del “principio di insularità” in Costituzione. Nutro forti perplessità su quest’iniziativa politica, che proverò a illustrare in questo articolo. Procederò così: prima proporrò qualche considerazione sullo strumento utilizzato, per poi affrontare la questione nel merito e, infine, trarne le dovute conclusioni politiche.

Lo strumento

Si sta richiedendo – come immagino sia noto – un referendum di tipo “consultivo”, che non produrrebbe alcun effetto giuridico nell’ordinamento. Sin qui poco male: la legge sarda n. 20 del 1957 prevede, infatti, oltre alle varie ipotesi di referendum abrogativo, che si possa indire anche un referendum popolare finalizzato a «esprimere il parere su un progetto di modificazione dello Statuto ai sensi dell’art. 54 dello statuto speciale per la Sardegna approvato con L.Cost. 26 febbraio 1948, n. 3»; a «esprimere parere prima della loro approvazione su progetti di legge ovvero di regolamenti o atti e provvedimenti amministrativi di competenza del Consiglio o della Giunta regionale»; e infine, a «esprimere parere su questioni di particolare interesse sia regionale che locale» (art. 1, lett. d, e, f).

Già da una rapida lettura di questa disposizione si evince chiaramente che il “referendum sull’insularità in Costituzione” non ricade in nessuna delle tre ipotesi di referendum consultivo previste dalla legislazione sarda vigente. Non si propone, infatti, nessuna modifica dello Statuto sardo, né si chiede al corpo elettorale di pronunciarsi su atti normativi e amministrativi regionali in via di formazione, né tantomeno concerne una questione «di particolare interesse sia regionale che locale», visto che si pone invero una questione che è tipicamente di interesse nazionale e sovra-regionale, quale è la revisione della Costituzione: una revisione che peraltro non riguarderebbe solo la Sardegna, visto che non siamo l’unica isola in territorio italiano né l’unica regione insulare della Repubblica. Aggiungo inoltre che quando nel linguaggio giuridico-costituzionale si parla di questioni di «interesse regionale e locale» si fa sempre riferimento a qualcosa di molto preciso, ossia a problemi e finalità che ricadono nell’orbita delle competenze regionali e locali: ora, poiché la modifica del testo costituzionale non impegna né le competenze regionali né quelle locali, bensì solo quelle legislative nazionali, se ne deve concludere che l’oggetto del referendum sull’insularità non è su questioni di «interesse regionale e locale».

C’è, infine, un ultimo e risolutivo argomento. Se la legge regionale del ’57 fosse interpretata come se consentisse un referendum consultivo regionale su oggetti di iniziativa legislativa costituzionale, essa sarebbe incostituzionale alla luce del precedente costituito dalla sent. 496/2000 della Corte costituzionale, che dichiarò incostituzionale una legge della regione Veneto poiché istituiva, per l’appunto, un’ipotesi di “Referendum consultivo in merito alla proposta di legge costituzionale”.

Vale la pena riportare per intero un passo cruciale della motivazione della Corte, che si articola su «due fondamentali proposizioni: la prima di esse è che il popolo in sede referendaria non è disegnato dalla Costituzione come il propulsore della innovazione costituzionale. La seconda è che l’intervento del popolo non è a schema libero, poiché l’espressione della sua volontà deve avvenire secondo forme tipiche e all’interno di un procedimento, che, grazie ai tempo, alle modalità e alle fasi in cui è articolato, carica la scelta politica del massimo di razionalità di cui, per parte sua, è capace, e tende a ridurre il rischio che tale scelta sia legata a situazioni contingenti».

La posizione della Corte è chiara e netta: è improprio chiedere a una frazione (regionale) del corpo elettorale nazionale di esprimersi su proposte di modifica costituzionale, poiché in tema di revisione della Costituzione il solo referendum ammissibile è quello previsto dall’art. 138 Cost. Di conseguenza, non si può tenere un referendum consultivo regionale su proposte di riforma costituzionale; e sarebbe incostituzionale una legge regionale che lo consentisse espressamente (o che fosse interpretata come se lo consentisse espressamente).

Ma le perplessità non finiscono qui.

Trattandosi di un referendum consultivo regionale (peraltro su un oggetto che non è di pertinenza del legislatore sardo), il Parlamento nazionale non sarebbe tenuto a prendere in esame la proposta. Eppure nell’ordinamento esiste il modo per costringere le Camere a prendere in esame e deliberare su una proposta regionale: in base all’art. 121 della Costituzione, infatti, il Consiglio regionale «può fare proposte di legge alle Camere», ivi comprese le proposte di legge costituzionale. Mi risulta che su questa iniziativa referendaria ci sia il consenso trasversale delle forze politiche maggiori, dal PD a Forza Italia: ci sarebbero quindi i numeri per votare in Consiglio una proposta di legge regionale rivolta al Parlamento ai sensi dell’art. 121. E – lo ribadisco – in questo caso il Parlamento sarebbe obbligato a fornire una risposta, accogliendo o respingendo la proposta. Perché, allora, si preferisce seguire la via della rivendicazione simbolica anziché la strada dell’azione politico-legislativa seria e produttiva di effetti? Perché svilire l’istituto referendario, chiamando a raccolta i cittadini sardi per un voto referendario che, se giudicato ammissibile, sarebbe comunque privo di effetti (se non quello, politicamente fumoso e incerto, di “attirare l’attenzione” del Governo sul tema dell’insularità), quando invece esiste già il modo per vincolare giuridicamente le Camere ad affrontare la questione?

Mi sembra che l’unico obiettivo politico al quale si sta veramente puntando sia quello demagogico di acquisire una visibilità quali difensori dell’autonomismo sardo: una visibilità che possa in qualche modo contrastare quella, al momento ben più forte, delle forze indipendentiste. Ma a parte il fatto che ciò, semmai, gioverà politicamente solo a coloro che hanno promosso l’iniziativa e non anche a chi si sta accodando, resta il fatto che il tema dell’autonomia sarda, e della sua difesa, richiede ben altro approccio e serietà.

Nel merito

Immaginiamo che si voglia seguire la via corretta e la Sardegna avanzi, ai sensi dell’art. 121 Cost., una proposta legislativa consiliare di inserimento dell’insularità in Costituzione: sarebbe utile? Avrebbe senso? Ne discenderebbero a cascata tutta una serie di vantaggi, come la continuità territoriale assicurata nella sua massima espressione, la fiscalità di vantaggio, una dotazione maggiore di trasferimenti finanziari dallo Stato o una più elevata quota regionale di compartecipazioni erariali?

La risposta è no. Per più ragioni. La prima è che l’«insularità» non è una norma o un principio, ma uno stato di fatto, una condizione geografica, che di per sé non esprime nessun particolare valore o disvalore. Ciò che si vuole suggerire, piuttosto, è che l’insularità può essere fonte di disagi strutturali di vario tipo, non ultimo quello economico-sociale, per le ragioni che tutti immaginiamo. Ma in tal caso non sarebbe l’insularità in sé a giustificare le maggiori provvidenze elencate prima (più risorse, meno tasse, ecc.), bensì l’effetto certificato della condizione insulare, ossia la situazione effettiva di arretramento economico-sociale.

In altre parole, il presupposto che può giustificare l’erogazione di maggiori risorse e benefici è l’insieme dei dati sulla produzione, la povertà, l’occupazione, il tasso di scolarizzazione, la mobilità interna ed esterna, ecc., relativi alla Sardegna. Se questi dati fossero di segno positivo nel confronto con altre realtà regionali, l’insularità da sola non potrebbe certo giustificare l’attribuzione di vantaggi aggiuntivi rispetto alle altre regioni. Aggiungo inoltre che nella nostra Costituzione si prevede già che «per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni» (art. 119, quinto comma, Cost.). Nella nostra Costituzione il principio della coesione economica, sociale, territoriale è ben presente, così come è ben presente, anche a livello di legislazione ordinaria, il tema della perequazione infrastrutturale. Del resto, è lo stesso principio di eguaglianza sostanziale, previsto dall’art. 3 della Costituzione, a esigere politiche legislative e amministrative che vadano precisamente in questa direzione, là dove afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»: una formulazione ampia che copre tutte le ipotesi e le cause (anche quelle di ordine territoriale) da cui possono derivare condizioni di disagio economico-sociale che pregiudicano l’uguale godimento effettivo dei diritti delle persone.

Posto che l’obbligo costituzionale di soccorrere le regioni bisognose esiste già, ciò che manca, semmai, è l’assenza di processi decisionali integrati tra Stato e Regioni in ordine alle scelte fondamentali di finanza pubblica e al riparto delle risorse tra i diversi enti territoriali della Repubblica: assenza che induce lo Stato a fare sempre la parte del leone nella distribuzione dei benefici e dei sacrifici finanziari. Nella perdurante assenza di efficaci strumenti negoziali istituzionalizzati al servizio delle Regioni e di sedi di raccordo decisionale tra Stato e Regione, che siano effettivamente capaci di condizionare le decisioni statali di finanza pubblica, è inevitabile che l’attuazione delle norme costituzionali programmatiche che impongono politiche di uguaglianza sostanziale (ivi comprese quelle dirette a fronteggiare i disagi economico-sociali dell’insularità) sarà sempre affidata alle valutazioni unilaterali e “interessate” della politica nazionale, che potrà seguitare indisturbata a dividere “le fette della torta” del bilancio statale nel modo che più conviene alle esigenze ministeriali e degli apparati centrali, sostanzialmente ignorando quelle delle periferie regionali e locali marginalizzate.

Ai principi debbono perciò seguire regole che ne assicurino la cogenza: diversamente rimangono lettera morta. Abbiamo bisogno non già di un nuovo principio costituzionale di tipo solidaristico (quale sarebbe quello dell’insularità), ma di congegni, sedi cooperative formalizzate, poteri di negoziazione e di condivisione delle decisioni, ecc., che diano “gambe” e operatività reale alle già numerose disposizioni costituzionali improntate alla logica dell’eguaglianza sostanziale (tra le persone e i territori).

La propaganda

Per tutte queste ragioni non capisco come si possa dire – a mio avviso, irresponsabilmente – che il referendum aprirà «la strada a una serie di opportunità sinora negate, soprattutto sul piano della fiscalità di vantaggio». Faccio presente che l’art. 10 dello Statuto speciale della Sardegna, che è – lo ricordo – una legge costituzionale, parificata alla Costituzione, prevede che «la Regione, al fine di favorire lo sviluppo economico dell’Isola e nel rispetto della normativa comunitaria, con riferimento ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità (…) può prevedere agevolazioni fiscali, esenzioni, detrazioni d’imposta, deduzioni dalla base imponibile e concedere, con oneri a carico del bilancio regionale, contributi da utilizzare in compensazione ai sensi della legislazione statale». La fiscalità regionale di vantaggio è, pertanto, già possibile: e se la strada non è percorsa come taluni auspicherebbero è perché ciò comporterebbe un minore afflusso di risorse nel bilancio regionale e quindi una minore spesa regionale, con quel che ne conseguirebbe sotto il profilo macroeconomico della domanda aggregata (che in questa fase recessiva o stagnante deve essere keynesianamente tenuta quanto più possibile elevata anziché ridotta).

Quanto alla fiscalità di vantaggio legata alla quota dei tributi erariali che non sono trasferiti alla Regione, immagino che si auspichi l’obiettivo di versare meno tasse a Roma, mantenendo però invariata, se non aumentata, la quota dei trasferimenti dallo Stato: obiettivo che, evidentemente, tutti auspichiamo, ma che non si capisce perché debba magicamente scaturire dal principio costituzionale di insularità (se inserito), visto che neppure riusciamo a conseguirlo appellandoci agli obblighi costituzionali di solidarietà. D’altronde è risaputo che al momento la Sardegna non riesce a ottenere dallo Stato neanche le somme che sono precisamente quantificate e dovute in forza di disposizioni vigenti dello Statuto speciale (mi riferisco alle varie quote di compartecipazione al gettito erariale riferibile al territorio regionale, previste dall’art. 8): non vedo come possa miracolosamente ottenerle in forza di un vago principio d’insularità.

Un altro argomento inesatto è che «l’affermazione del principio di insularità all’interno della Costituzione ci consentirà una revisione totale sia del concetto di aiuto di stato, che di concorrenza»; e che «darebbe la possibilità al Governo di chiedere alla UE il riconoscimento della insularità in nostro favore». In realtà non c’è alcun nesso di causalità o strumentalità tra una modifica costituzionale e la possibilità di piegare a nostra vantaggio i contenuti normativi del diritto dell’Unione europea. Anzi, direi che il condizionamento opera in senso inverso. Di tutela della concorrenza mi sono occupato a fondo nel mio ultimo libro pubblicato (dal titolo La costituzione della moneta. Concorrenza, indipendenza della banca centrale, pareggio di bilancio, Jovene editore, Napoli, 2016); e una delle cose ben note a chi studia il tema è che le norme costituzionali non orientano affatto (né possono orientare) il diritto europeo della concorrenza, il c.d. competition law, ma anzi ne sono pesantemente condizionate, tanto che in tutti gli ordinamenti interni dei paesi membri dell’UE i tribunali costituzionali hanno affermato che le disposizioni costituzionali in tema di governo dell’economia (e non solo) sono “cedevoli” rispetto alle discipline europee, le quali prevalgono di regola su tutte le norme costituzionali nazionali, salvo il rispetto dei c.d. “controlimiti” costituiti dai “principi supremi” (controlimiti che però la nostra Corte costituzionale non ha mai attivato e che è restia ad attivare perché sarebbe un colpo esiziale per la costruzione europea). In definitiva, possiamo adottare tutte le modifiche costituzionali che vogliamo, la disciplina europea sulla concorrenza e gli aiuti di Stato non ne sarà minimamente riguardata, né tantomeno intaccata. Se si vuole una revisione di queste norme sovranazionali, bisognerà seguire un’altra strada, che passa inevitabilmente per il procedimento legislativo dell’UE e che prescinde dal fatto che in Costituzione ci sia o non ci sia il principio di insularità.

Faccio un altro esempio. Nella nostra Costituzione è scritto a chiare lettere, all’art. 41, che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»: in base a questa disposizione il legislatore nazionale potrebbe, in linea di principio e in vista di finalità sociali come il riequilibrio economico-sociale, interrompere o limitare le regole del mercato concorrenziale in questo o quel settore produttivo. Eppure, nonostante ciò, l’art. 41 non hai mai costituito uno “scudo” contro la disciplina europea sulla concorrenza e gli aiuti di Stato. Le regole europee prevalgono sempre e comunque.

Come si vede, gli argomenti sinora a sostegno di questo referendum pretendono di essere tutti “tecnico-giuridici”, ma in realtà non lo sono affatto, perché anche alla luce di un’analisi giuridica sommaria e superficiale rivelano immediatamente tutta la loro fragilità. Ciò peraltro dimostra che su un tema di questo tipo non è possibile scindere i profili “tecnico-giuridico” da quelli “politici”: se si è d’accordo sui primi, si deve convenire pure sui secondi. Se è tecnicamente impossibile ottenere da un referendum consultivo regionale l’inserimento in Costituzione del “principio di insularità” e poi ottenere da questo tutto quello che miracolosamente si immagina di farvi discendere, allora vuol dire che lo strumento di lotta politica è sbagliato e chi lo spaccia per buono inganna gli elettori (ai quali, infatti, non si diranno le cose che qui scrivo, ma che in seguito alla vittoria del “Sì” la Sardegna otterrà finalmente ciò che le spetta).

Chi vince e chi perde

C’è infine l’argomentazione di chi, in vista di un probabile se non certo trionfo del “Sì” alla consultazione referendaria, crede che sia opportuno, utile, ecc., stare dalla parte di chi vince, pensando di intascare un qualche dividendo politico dalla vittoria annunciata. È un modo di approcciare il tema che liquida da subito ogni valutazione di merito, perché alla fine ciò che conta veramente è azzeccare il giusto posizionamento e figurare da subito tra i vincenti e non tra i perdenti…

Non so se questo sia veramente “fare politica”. Mi pare che in Sardegna la platea dei furbetti, opportunisti e di coloro che pensano di “saperla lunga”, quali novelli Richelieu, sia già affollata. Ricordiamo cosa accadde in occasione dei referendum sardi sulle province? Pure allora la vittoria era annunciata e ciò indusse la gran parte a schierarsi per il “Sì” o, al limite, ad astenersi. Il resto è storia nota: nel merito era una cosa pasticciata, che ne generò delle altre forse ancora peggiori, dalle quali ancora non riusciamo a venirne fuori.

Quanto agli elettori, come pensiamo che si sentiranno quando avranno scoperto che il referendum è solo consultivo, che è “fuori oggetto”, se non illegittimo, e che il Parlamento nazionale potrà bellamente ignorarlo (come infatti accadrà)? È da persone responsabili consegnare loro la sensazione di essere stati convocati in massa per nulla?

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