Magistratura e superamento dell’OPG
6 Dicembre 2013Daniele Pulino
Francesco Maisto, giudice di sorveglianza del Tribunale di Bologna, è stato a Cagliari nel corso del seminario pubblico sull’amministratore di sostegno, organizzato lo scorso 15 novembre dall’ASARP all’interno delle iniziative del mese dei diritti umani. In quell’occasione abbiamo deciso di discutere con lui di Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). Il Manifesto sardo si è occupato attivamente e a più riprese questo argomento che, oltre investire fortemente legato le tematiche dei diritti, coinvolge direttamente il lavoro della magistratura di sorveglianza.
Come magistrato lei si è occupa frequentemente di OPG. Nel 2012 il lavoro della commissione sull’attuazione del Servizio Sanitario Nazionale, presieduta dall’allora senatore Ignazio Marino ha prodotto una legge (L. n.9 del 2012) che ne ha previsto la chiusura e ha evidenziato la presenza in OPG di un numero elevato di persone che continuano a rimanere internate nonostante potrebbero essere dimesse. Quali sono i problemi con i quali si scontra il lavoro della magistratura di sorveglianza per favorire la dimissione di queste persone?
Il lavoro della magistratura di sorveglianza per favorire la deistituzionalizzazione inciampa in una quantità di ostacoli al punto tale che, per sbloccare la situazione, ci sono magistrati di sorveglianza che fanno formalmente delle intimazioni alle ASL e ai Dipartimenti di Salute Mentale per richiedere la presa in carico di quei soggetti che, praticamente, sarebbero dimissibili soltanto se venissero ripresi nel territorio di appartenenza. Invece c’è una riluttanza e una disattenzione da parte dei servizi della maggior parte delle Regioni nel riprendere cittadini del loro territorio. Dunque quella parte della legge Marino (L. n.9 del 2012) che in modo quasi eufemistico dice che i magistrati di sorveglianza devono dimettere queste persone risulta una beffa, perché rimettere sulla strada queste persone significa metterle in una condizione di disagio che può portare a commettere reati, non gravi, reati lievi, ma sempre reati. E quindi c’è un’oscillazione tra un paternalismo giudiziario da una parte e una reazione asettica e neutra dall’altra, che non si fa carico dei problemi del reinserimento nel territorio. Mentre c’è un gran numero di persone che possono essere normalmente dimesse, che non hanno commesso reati gravi e che semmai hanno reiterato una quantità di reati bagatellari, che invece restano negli OPG. La maggior parte delle persone che sono oggi negli OPG hanno commesso questo tipo di reati.
Generalmente una persona arriva in OPG quando viene ritenuta non imputabile a causa di una malattia mentale. In questo caso, se si ritiene che possa commettere nuovi reati, viene applicata una c.d. misura di sicurezza. C’è una parte della legge n. 9 del 2012 che, in relazione alla chiusura degli OPG, prevede che le misure di sicurezza dovranno essere effettuate esclusivamente in nuove strutture che dovrebbero essere istituite dalle regioni. Non c’è un contrasto con gli orientamenti della Corte Costituzionale che suggeriscono invece il ricorso alla libertà vigilata in alternativa all’internamento in OPG?
Bisogna prendere atto che non è stata modificata la disciplina del codice penale. Quindi insieme al problema della dichiarazione di infermità o semi infermità, è rimasto anche il nome OPG o Casa di Cura e Custodia. È vero che con le due sentenze della Corte Costituzionale si possono applicare delle misure graduate, come ad esempio la libertà vigilata, che consentono di aggirare il problema, però l’accelerazione sul piano del processo legislativo che ha imposto la legge Marino complica inutilmente le cose. Nel senso che il giudice, nel caso in cui ritiene la persona inferma, applica la misura del codice penale, che dovrebbe essere realizzata in queste strutture, che proprio perché vengono denominate strutture, rischiano di essere fin dall’origine delle entità strutturali e logistiche ospedaliere che richiamano facilmente dei mini ospedali psichiatrici giudiziari. Questa è la cosa grave. D’altra parte bisogna tenere presente che il termine, ora posto in legge, è già slittato due volte. Inizialmente termine non era posto in legge perché faceva parte di un processo di dismissione e quindi non era un’entità giuridica, era un’identità sociologica. Si è messa una data di chiusura nella legge, come se dalla legge dipendesse la chiusura ma, in realtà, non poteva essere così, tant’è che quindici giorni fa il segretario del ministero della sanità, nel corso di un’audizione in commissione sanità, ha detto che a causa della riluttanza delle regioni è prevedibile un ulteriore slittamento. Quindi siamo al punto di partenza.
Bisogna considerare anche che alcune persone arrivano in OPG direttamente dal carcere.
Si tratta delle persone che hanno una infermità psichica sopravvenuta durante la carcerazione prevista dall’art. 148 del codice penale. Questo, per esempio, è un problema dibattuto. Perché la legge Marino parla di esecuzione della misura di sicurezza, ma l’art. 148 non è l’esecuzione di una misura di sicurezza. Ci sono nella legge delle superficialità o delle ingenuità anche terminologiche, come l’utilizzo del termine struttura, che non tengono conto di quello che è il dato normativo.
Quali potrebbero essere i modi per favorire le dimissioni dagli OPG, specie per le persone attualmente dimissibili?
Secondo me un ulteriore ripasso legislativo è fondamentale, non solo per modificare il termine struttura, ma per ampliare, attraverso l’uso dei termini giusti, la varia gamma di alternative possibili nel territorio, in modo da rendere possibile un reinserimento. Cioè bisogna far capire che la misura di sicurezza si può far eseguire anche in una casa famiglia, in un gruppo appartamento, in una comunità, ovvero che le risposte di reinserimento devono essere diversificate a seconda della necessità del paziente.
Sempre rispetto al problema delle persone dimissibili, quanto può essere importante un lavoro congiunto tra magistratura e servizi di salute mentale?
Dove si fa questo lavoro integrato ha grande efficacia. Noi in Emilia Romagna abbiamo un rapporto proficuo di collaborazione tra i magistrati di sorveglianza, addetti alla gestione delle persone internate nell’OPG di Reggio Emilia e servizi territoriali regionali. E si vede la differenza. Perché quando si tratta di persone che devono essere reinserite in altri territori, non avendo i magistrati di sorveglianza un collegamento con i servizi di altre regioni, molte persone restano in OPG. Questo raccordo è fondamentale. Abbiamo poi un tavolo di lavoro che va avanti da un anno per produrre dei protocolli d’intesa in materia di psichiatria, così come li abbiamo prodotti anche in materia di tossicodipendenze. Ad esempio con le tossicodipendenze c’è stata una parabola degli affidamenti terapeutici che sono andati dal 40% al 75%. Noi pensiamo che sia importante scambiare e accettare un linguaggio comune tra magistrati di sorveglianza e altri specialisti. Se non ci si incontra su un linguaggio comune ci saranno sempre delle discrasie tali che non provocheranno liberazione. E poi, dopo aver concordato un linguaggio comune, si producono delle schede, che sono una specie di protocollo al quale ci si attiene, sia da parte della magistratura sia da parte dei servizi. Questo è il lavoro che stiamo facendo.
E più in generale, cosa si può fare per arginare i nuovi ingressi in OPG?
È necessario che si riveda tutto il problema delle perizie e della formulazione delle soluzioni e delle risorse che dà il perito. L’ideale sarebbe che, nel caso di persone che hanno delle patologie, non si facciano proprio le perizie. Cioè che si attivi tutto quello che c’è a livello di risorse nel territorio, che si sentano in udienza gli operatori della salute mentale. Dunque bypassare le consulenze tecniche d’ufficio, che servono a poco quando una persona ha già una storia alle spalle, è l’unico modo per limitare i nuovi ingressi. Invece oggi i giudici spesso non sanno neanche che una persona è già seguita dai servizi di salute mentale.