E l’acqua sembrava leggera
16 Marzo 2012Gianni Loy
Sarà stanchezza. Sarà rassegnazione. Anche la morte passa distratta sulle prime pagine dei giornali. Non tutte le morti, per la verità. Il delitto, il mistero, il dubbio, il sospetto, ancora son capaci di suscitare curiosità, non di radomorbosa, che si alimenta delle indagini, e dei processi, e dei colpi di scena…. Non così la morte, spesso silenziosa di uomini e donne che decidono di farla finita volontariamente. Tra questi, nelle pagine dei quotidiani, nelle ultime settimane, fuggenti storie di cassintegrati o di licenziati che hanno scelto il suicidio. Davanti alla morte è giusto che prevalga la pietà. La morte è mistero, non possiamo pretendere la certezza che il gesto sia veramente dovuto alla perdita del lavoro, o al timore di perderlo. Ben più complessi e misteriosi sono i processi della mente umana.
Eppure, senza voler invadere il dolore intimo che la morte porta con sé, senza intromettersi nei sentimenti dei superstiti, senza pretendere di interpretare ciascun gesto, una sorta di legge dei grandi numeri ci propone, drammaticamente, una delle sfaccettature di questa crisi economica.
Sì. La crisi economica può provocare anche la morte fisica. Curiosamente lo sapevamo, perché è stata la storia ad insegnarcelo. Come nel’29, quando la crisi ha lasciato alle sue spalle una scia di suicidi. Ed oggi, mentre la storia si ripete, non importa se nelle stesse proporzioni, se in misura comparabile o con minore incidenza, sembra più difficile cogliere il senso di questa drammatica realtà.
Ma non cerchiamo di quantificare, lasciamo la morte, almeno quella, fuori dalle contabilità di chi, quasi ogni giorno, proponendoci statistiche vestite di assolutezza, pretende di insegnarci chi siamo e cosa vogliamo. E poi, la morte, è solo l’estremo di una sofferenza psichica e materiale, i due lembi spesso combaciano, che si diffonde come la gramigna, che contagia, che senza che ce rendiamo conto tende a diventare endemica. La morte è solo l’estremo di una sofferenza che, a volte, viene nascosa dalla dignità, altre volte è palese, che, spesso, si finge di ignorare. Cioè della povertà, della nuova povertà che non è più soltanto un timore ma una realtà ormai insinuatasi pesantemente nella nostra struttura sociale. La disoccupazione, il precariato, lo sfruttamento del lavoro irregolare, persino la rinuncia alla speranza, quell’estremo atto di chi, stremato, smette di cercare lavoro, sono solo il sintomo esteriore di una china verso la povertà che, ma solo qualche volta, spinge all’abbandono, perché l’acqua sembra leggera… Un tempo, si diceva, c’era un popolo, incazzato da diecimila anni e più, fottuto e deriso, che però, qualche volta, si è buttato a testa bassa ed ha mandato in aria il baraccone. Oggi, sembra che quel popolo non possieda più le energie per ribellarsi. Qualche volta plaude persino a chi gli toglie il pane di bocca.
Ed il pane di bocca, a molti, è già stato sottratto: solo con i “circenses” li governano!
Ma, in fondo, anche per la ribellione c’è ormai poco spazio. Tutto ciò che accade, in questa economia (o meglio finanza) frenetica che ci governa è ormai dominato dal segno della fatalità. All’interno del sistema che ci siamo, che ci hanno creato intorno non esiste più spazio d’azione.
Non solo gli Stati (chi più chi meno) son decotti, ma anche le istituzioni sovranazionali balbettano alla mercé di potentati anonimi che sono i nostri veri governanti occulti.
La guerra. E’ questa la guerra. Di un’economia che mette in campo, novelli gladiatori, lavoratori di diversi emisferi. Il premio, per quelli che vinceranno la prima sfida, sarà solo quello di poter combattere in un’altra, ancora più cruenta, arena. I padroni, in altri termini, si combattono facendo combattere i propri dipendenti a chi sia disposto a lavorar per meno, a chi sia più flessibile.
L’avrebbero dovuto insegnare oggi che i lavoratori di tutto il mondo dovrebbero unirsi!
La competitività, quella parola che, chissà perché, tutti declinano in inglese (anche Prodi, ricordate: competition is competition!) ha insita nella sua struttura concettuale, la soccombenza del più debole. E soccombere, in questa accezione, non significa arrivare secondi in campionato, può significare anche morire.
Anche lasciarsi prendere dalla lusinga dell’acqua che scorre leggera, quando non si possiedono più sufficienti energie per continuare a lottare da soli.