2 giugno: la cacciata dell’ultimo tiranno sabaudo
1 Giugno 2017Francesco Casula
Il due giugno si festeggia la nascita della Repubblica: poiché di questo evento se ne parla anche troppo e con ciclopiche dosi di retorica, preferirei soffermarmi sull’altro corno dell’evento, trascurato e sottaciuto: la cacciata dell’ultimo tiranno sabaudo, Vittorio Emanuele III, il quale durante il suo regno (1900-1946) fu connivente e spesso attivo sostenitore di scelte sciagurate e funeste per l’intera Italia e per la Sardegna in particolare, per le conseguenze devastanti che quelle scelte comportarono. In particolare fu responsabile di cinque vere e proprie “infamie”.
1. La decisione di entrare in guerra fu presa esclusivamente dal sovrano, in collaborazione con il primo ministro Salandra, Il conflitto fu, come noto, tremendo per le forze armate italiane, che andarono incontro ad una spaventosa carneficina, tra il fango, la neve delle trincee e tra indicibili stragi e sofferenze.
Fu lo stesso Papa Benedetto XV a definire quella guerra una inutile strage. Ma in una enciclica del 1914 Ad Beatissimi Apostolorum Principis lo stesso papa era stato ancora più duro definendola una gigantesca carneficina.
Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte però sperimenterà sulla propria pelle l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili. Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari immani lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi e il fio maggiore fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’este sa Sardigna intrea, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata”2 .
Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato bel 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.
La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. Abbasso la guerra, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in Un anno sull’altopiano – Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita.In cambio delle migliaia di morti, – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta- Raspi – non sfamava la Sardegna.
Sempre Carta Raspi scrive: ”Neppure in seguito fu capito il dramma che in quegli anni aveva vissuto la Sardegna, che aveva dato all’Italia le sue balde generazioni, mentre le popolazioni languivano fra gli stenti e le privazioni. La gloria delle trincee non sfamava la Sardegna, anzi la impoveriva sempre di più, senza valide braccia, senza aiuti, con risorse sempre più ridotte. L’entusiasmo dei suoi fanti non trovava perciò che scarsa eco nell’isola, fiera dei suoi figli ma troppo afflitta per esaltarsi, sempre più conscia per antica esperienza dello sfruttamento e dell’ingratitudine dei governi, quasi presaga dell’inutile sacrificio. Al ritorno della guerra i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni: le medaglie d’oro. d’argento e di bronzo e le migliaia di croci di guerra; ma esse non germogliavano, non davano frutto”
2. Vittorio Emanuele III e il Fascismo.
Una delle massime responsabilità storiche di Vittorio Emanuele III fu l’aver favorito l’avvento e l’affermarsi del Fascismo. In seguito alla cosiddetta Marcia su Roma infatti, incaricò Benito Mussolini di formare il nuovo governo. Avrebbe potuto far intervenire l’esercito per combattere e disperdere gli “insorti”, invece mentre le forze armate si preparavano a fronteggiare “le camicie nere”, – con Badoglio fra i principali esponenti della linea, giustamente dura –, Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio, di fatto aprendo la strada al fascismo.
Poco interessa oggi sapere se lo abbia fatto per viltà, opportunismo e calcolo politico: fu comunque il re a nominare Mussolini capo del Governo dando il via alla tragedia ventennale di quel regime.
Mussolini di fatto esautorerà la stessa monarchia che beata e beota si godeva il suo “impero” di sabbia con le conquiste imperiali, che evidentemente riteneva dessero lustro e prestigio alla monarchia, non comprendendo che invece di volare stava precipitando e con essa l’intero popolo italiano e quello sardo in primis! Abbeverato di olio di ricino, internato nelle galere e esiliato al confino, condannato per ben quattro lustri ad ulteriore sottosviluppo.
3. Vittorio Emanuele III e le leggi razziali.
Una delle maggiori “infamie” di cui si macchiò Vittorio Emanuele III sono state le leggi razziali emanate dal regime che hanno costituito e costituiscono tuttora la pagina più nera della storia dell’Italia e che recavano la firma di un sovrano che accettava l’antisemitismo e la furia xenofoba dell’alleato tedesco, fiero di un Mussolini che l’aveva fatto re d’Albania ed imperatore d’Etiopia!
4. Vittorio Emanuele e la seconda guerra mondiale
La seconda guerra mondiale rappresenterà l’evento più drammatico che mai si sia verificato nella storia dell’umanità. E corresponsabile sarà anche il re. Ecco come icasticamente si esprime nella bella Commedia s’Istranzu avventuradu, Bastià Pirisi: su Re nostru hat dadu manu libera ai cuddu ciacciarone de teracazzu de s’anticristu fuidu dae s’inferru… Sincapat qui sa corona de imperadore l’hat frazigadu su carveddu
Scrive invece lo storico Franco della Peruta facendo una analisi complessiva:”Il bilancio del conflitto appariva sconvolgente perché la guerra, l’ecatombe più micidiale degli annali del genere umano, tre volte superiore a quella della grande guerra: aveva fatto 50 milioni di vittime fra militari e civili…”.
Anche la Sardegna pagò un grande tributo. I bombardamenti dapprima di lieve entità, furono dopo lo sbarco americano nell’Africa settentrionale, frequentissimi e massicci. Furono danneggiati circa 25 comuni, fra cui Alghero, Carloforte, Carbonia, La Maddalena, Sant’Antioco, Palmas Suergiu, Setzu, Olbia, Oristano, Milis e, più gravemente degli altri, Gonnosfanadiga, dove si ebbero 114 morti e 135 feriti. Presa di mira fu soprattutto Cagliari. Le tristi giornate del 17, 26, 28 febbraio 1943 e quella del 13 maggio – scrive Natale Sanna – non saranno mai dimenticate dai Cagliaritani, che hanno visto la furia devastatrice venire dal cielo e distruggere la loro città, sventrando interi rioni, sconvolgendo le vie, lasciandosi dietro una scia di cadaveri e di feriti nelle strade e nelle macerie. Migliaia di morti (che alcuni fanno ascendere a 7.00 e il 75% dei fabbricati distrutti o resi inabitabili, furono il tragico bilancio di quei giorni”7.
5. Vittorio Emanuele III e la fuga a Brindisi.
Persa ormai la guerra e convinto ormai che il disastroso esito del conflitto potesse segnare non solo la fine del regime fascista ma anche quello della monarchia, Vittorio Emanuele arresta Mussolini (25 luglio 1943) e nomina nuovo capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il giorno dopo l’Armistizio, il 9 settembre, insieme a Badoglio stesso abbandona Roma e fugge prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli alleati. L’ignominiosa fuga avrà conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa fuga: 12.000 mila i soldati sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) verranno rinchiusi nei lager nazisti. Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’8 settembre. Con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, – non esistendo più una unità di comando e di direzione – essi furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla Repubblica sociale di Salò o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Abbandonati da Badoglio, quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato.
1 Giugno 2017 alle 10:12
Complimenti professore, riesce sempre ad avere un punto di vista alternativo rispetto alla storia ufficiale, e si impara sempre dai suoi scritti :)