Identità è alterità

16 Gennaio 2010

stirpe

Paolo Bernardini

Riflettere su identità e passato significa interrogarsi sull’identità del passato; quei tempi lontani che esistono soltanto nelle parole, nei concetti e nelle ideologie che noi, nel nostro tempo, impieghiamo per descriverlo e riesumarlo (Johnson, 2000). Spesso il passato della Sardegna è tornato ad essere quello di Pausania: una terra  indecifrabile percorsa dalle gesta degli eroi provenienti dalla Grecia e dall’Oriente; anche se, nella storia antica dell’isola costruita dalle ideologie moderne, si percorre sovente una rotta alternativa: quella della specificità metastorica della Sardegna.
Il mito dell’isola che rifiuta la sua mediterraneità e che si esalta nell’isolamento e nell’estraneità ha gran parte nella ricerca esasperata e nevrotica di un’identità artificiale e artificiosa così come il suo contrario, le vicende marittime dei Sardi signori degli oceani avanzate da una pseudo-storia analfabeta e tracotante; ma dietro, spesso non capite, vi sono le regole, non scritte ma potentissime, del colonialismo vecchio e nuovo, legate al predominio astorico di un sistema-mondo in cui il centro sempre civilizza la periferia e insieme la opprime.
Le fasi di interazione tra la civiltà nuragica e l’espansione fenicia nei primi secoli dell’età del Ferro (IX-VIII sec.a.C.), sono  tema centrale del dibattito; partendo dal concetto di Johnson sulla costruzione moderna del passato, viene da chiedersi perché a queste fasi storiche, cruciali per gli sviluppi culturali dell’isola, venga sovente assegnata una posizione marginale e periferica, avulsa e slegata dal grandioso dispiegarsi della civiltà nuragica dell’età del Bronzo; perché  il fenomeno storico di una maturazione e di un passaggio, attraverso il confronto e il cambiamento, diventi barriera e frattura culturali. Sarà certamente esagerato affermare che la fase dei rapporti tra Indigeni e Fenici appare per molti studiosi isolani un segmento della nostra storia insulare più da tollerare che da studiare; ma vi è la percezione netta di come essa sia intesa, da più parti, come un momento confuso, disordinato, disgregato, che segue la grande fioritura della cultura nuragica, tutta chiusa e circoscritta nell’età del Bronzo. Dopo, vi sarebbe qualcosa di molto simile a un processo di imbarbarimento e di imbastardimento, un percorso culturale che appunto merita un titolo di coda: quella definizione, oggi di moda, di postnuragico; ecco che le vicende, straordinarie e innovative, della Sardegna dell’età del Ferro diventano, fin nella nomenclatura, il ricordo spento di una grande cultura ormai venuta meno. E’ evidente a tutti che la cultura nuragica si sviluppa e raggiunge il suo momento massimo di fioritura nel corso delle fasi mature e finali dell’età del Bronzo; è altrettanto evidente che tale civiltà subisce un tracollo fortissimo nelle fasi conclusive dell’età del Bronzo; ma è di nuovo altrettanto evidente che non è possibile costruire barriere e cesure tra la cultura materiale della fine dell’età del Bronzo e quella successiva del Ferro, in quanto la medesima tradizione artigianale continua a manifestarsi nella nuova fase culturale; in altri termini, le comunità nuragiche non si sono estinte ma sono ben vive.
Merita viceversa di essere percorso un altro itinerario, assai più fecondo: seguire le trasformazioni dell’autoctonia dalle prime fasi dell’arrivo dei Fenici al dipanarsi del periodo orientalizzante, comune a tutto il Mediterraneo, nel quale le società locali e i nuovi partners compongono un mondo diverso, dove tradizioni locali e impulsi esterni si mescolano inestricabilmente, dove vivificano nuovi fermenti. Ma l’itinerario che ho proposto va oltre: perché poi vi sarà Cartagine e la sua graduale presa di possesso dell’isola: uno scenario nel quale, inevitabilmente e nonostante alcuni giudizi resistenziali del nostro caro maestro Giovanni Lilliu, i processi vincenti sono quelli dell’interrelazione e dell’integrazione. Il quadro desolante di un’isola senza autoctoni, improvvisamente popolata dai Fenici, appartiene alla storia delle ideologie moderne e non alla storia della storia antica; un quadro che rivela, a un’analisi attenta, motivazioni più ideologiche e confessionali che archeologiche e che, di nuovo, appartiene all’artificioso e costruito dissidio tra  Occidente e  Oriente: l’indigeno sardo, privo della sua patente e visibilità nuragiche, diventa inesistente, non ha diritto alla storia che, non essendo più nuragica, non è più storia; così, senza volto e senza ricordo, continua a vivere ignorato in una terra che, essendo stata contaminata dall’uso di tradizioni materiali allogene – che siano fenicie o puniche – ha diritto di negargli ogni riconoscimento.
La riflessione sulle costruzioni, rigidamente binarie, dell’archeologia colonialista si è sviluppata dietro le sollecitazioni della decolonizzazione e i progressi delle dottrine antropologiche e sociologiche che hanno decrittato questo mondo irrevocabilmente a due colori; la cultura del postcolonialismo ha seminato un buon raccolto nella disciplina archeologica e la problematica della colonizzazione nell’evo antico scopre letture  più complesse e articolate. L’habitat in cui si produce quel particolare sistema coloniale i cui protagonisti sono i Fenici e l’autoctonia sarda appare oggi il punto di partenza obbligato per comprendere come questo paesaggio che è fisico, culturale, sociale e ideologico insieme, si componga essenzialmente come costruzione interna, come sperimentazione e adattamento indigeni di modelli e sollecitazioni esterne. Questi scenari coloniali stanno emergendo da una ricerca archeologica che si va liberando lentamente dai concetti pesanti e monocordi della colonizzazione e dell’acculturazione e sono già evidenti nelle analisi in atto sui sistemi coloniali delle regioni sulcitana e oristanese al volgere dal Bronzo al Ferro. Un’analisi dei modi in cui una società indigena elabora e costruisce il proprio sistema coloniale dovrà tracciare quegli itinerari culturali che, sempre ibridi e un poco equivoci, approdano al mutamento, alla trasformazione, attraverso un rapporto, mai binario, che raccorda tradizione e innovazione, lacerazione e continuità, coscienza di sé e coscienza dell’altro; identità e alterità, identità è alterità.

3 Commenti a “Identità è alterità”

  1. Graziano Deiana scrive:

    Sono d’accordo.
    ancora oggi rimane a noi il compito di guardare oltre il mare.
    magari chiedendoci se era meglio o peggio avere a che fare con punici,
    romani etc di ieri oppure con gli sconosciuti signori di Pittsburg di oggi.
    certo da questo punto di vista l’alterità è ridotta a ben poca cosa.
    mentre sembrerebbe che l’identità siano i cosidetti prodotti locali da presentare nei ristoranti di Londra e Tokio con graziose ragazze in costume al seguito e altrettante televisioni, anch’esse locali.
    intanto continua l’invasione dei riscaldati e luminosi centri commerciali dove si va a passare i sabato pomeriggi.
    mmmah!!!!

  2. Leonardo Casu scrive:

    “le vicende marittime dei Sardi signori degli oceani avanzate da una pseudo-storia analfabeta e tracotante”.
    Salve. Vorrei capire meglio il significato di questa frase, per me un po’ sibillina… e quindi anche a cosa e a chi si riferisce.
    Grazie

  3. Paolo Bernardini scrive:

    Caro amico, le librerie delle nostre città sono tutto un fiorire di letteratura pseudo-storica che purtroppo gode del credito di tanti ignari lettori; vi è in questo una grande responsabilità degli studiosi, quelli veri, i quali prediligono pubblicare su riviste specializzate, irraggiungibili da parte dei non addetti ai lavori, e disdegnano di dialogare con il grande pubblico il quale avrebbe invece il diritto di conoscere la ricerca storica, quella vera, e i suoi risultati. In questi libri si legge dei Sherden signori del mondo, della Sardegna terra di Atlantide e centro dell’universo etc. etc.; ma si sproloquia anche sulla lingua e sulla scrittura, sulle statue di Monte Prama e chi più ne ha più ne metta. Ricordo, perché lo spazio è tiranno (ma in questo caso un tiranno benevolo, perché mi impedisce di sprecare parole per cose da poco) soltanto l’opera di Melis con i suoi “principi di Dan” i “calcolatori del tempo” i “custodi del tempo” … e via di seguito … davvero il libro di Frau, con il suo rinnovato mito atlantideo (sul quale consiglio una lettura estremamente seria: P.Vidal Naquet, Atlantide. Breve storia di un mito) , ha aperto il vaso di Pandora … (ma il libro di Frau è un “manuale” rispetto ai testi di cui parlo e a tanti altri che gli fanno corona). La Sardegna vive nel Mediterraneo antico, insieme alle culture e ai popoli con cui si è incontrata, una storia meravigliosa; i miti moderni non fanno che svilirla ed umiliarla.

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