Poetare operaio

16 Febbraio 2010

piras

Natalino Piras

Il lessico della fabbrica non muore, almeno fino a che dura la poesia. Nelle sue petrosità e durezza – ché dura continua a essere la condizione operaia – ma pure e soprattutto nella sua leggerezza. Significante l’esempio di “poetare operaio (Ballata delle fabbriche bugiarde)”, opera di Flore De Montes, il numero 20 dei “Quaderni orunesi”, uscito poco  prima di Natale. I “Quaderni sono plaquettes a tiratura limitata di cui è editore, impaginatore e grafico Nico Orunesu, architetto, insegnante di liceo, pittore dell’immaginifico e del materico. Molti, tutti i “Quaderni”, sono dentro le contraddizioni del tempo storico e sociale, personale-politico, con una visionarietà e una prospettica che continuano a essere dichiaratamente a sinistra. Nonostante tutto. Leggere “poetare operaio” per capire, per entrare dentro la spina dorsale di questo nostro tempo sardo- universale,  locale-globale. La ballata delle fabbriche bugiarde, quasi 60 pagine di ottave in quattro parti, metro irregolare,  tutto minuscolo, punteggiatura assente, è dedicata “ai disoccupati, agli emarginati, agli  sfruttati del lavoro salariato”. Apre con “rabbia tanta e siamo alla partenza/in traghetto ci siamo imbarcati/verso la capitale” e chiude con “niente ci promettono alla fine fino a domani/cosa faremo lo sapremo solo domani”. Rimarchevole come questo “poetare operaio” sia una cronaca anticipata, quasi una profezia, della protesta, della salita su tetti e cisterne, dell’occupazione di fabbriche, di marce e imbarchi, di peregrinazioni di tute blu, caschi da miniera con gli occhiali  poggiati sopra, degli scontri, uomini e donne di lavoro e senza lavoro, da dopo Natale sino a gennaio, allo sciopero del 5 febbraio. Resoconto dello spietato adesso e taglio storico di tanti ieri. Come ultimo termine c’è, se ci sarà,  “solo domani”.   A raccontare la ballata, a cantarla con voce rauca e aperta, è Flore De Montes: con la passione del coinvolto, con il distacco dell’organizzatore politico.  Tutto bisogna mettere in conto:  il tempo fermo e il dolore per le ferite in battaglia,  le manganellate che lasciano i lividi sulla pelle e tutto il guazzabuglio di dentro, insanabile. Flore de Monte confronta il suo attuale status di operaio dell’Alcoa-Eurallumina di Portovesme, di Fusina in quel di Venezia, della Vinyls di Porto Torres, della Fiat di Termini Imerese,  dell’Alfa di Pomigliano d’Arco, con quanto è stato suo padre, operaio dell’autunno caldo nel lontano, mitico, 1969. C’è molto scarto generazionale tra quanto ieri fu stare uniti in battaglia e il disgregato oggi dove pure non mancano le solidarietà.  Oggi: “sempre fottuti è ora/di battere i pugni sui tavoli”, “gli impianti obsoleti  e noi rischiamo/della vita a loro non frega un cazzo”, “che il sangue di 250 operai ribolliva”, “e invece le strade piene di mendicanti”, “rimbomba nelle facciate e gli uccelli/esplodono dal verde degli alberi al cielo”.   Viale Trento a Cagliari e le  piazze davanti ai ministeri romani sono i luoghi del consumo e dell’ostentazione della rabbia che si ripete sempre più impotente sempre più senza speranza nonostante il mitico autunno del ’69. Perché “l’altare dei profitti” ha tagliato lavoro, quanta umana carne quanti stati delle anime,  e creato centri commerciali e outlet, moderni divoratori moloch mascherati da outlet. Non-luoghi al posto della fabbriche seppure bugiarde. In questo divorare,  il mostro Leviathan uccide l’homine, equipara l’etica al profitto.  Oggi.  E poi si maschera.   Noi “non abbiamo davanti un padrone ma spettri/e fantasmi  prima il padre poi la figlia poi la regione”.  Coro malu ne viene a Flore De Montes. Gli operai che imbarcano per andare   alla guerra nella capitale, una tra le diverse del Capitale (ma è più una roma produttrice di lumpen che di coscienze e cagliari è metropoli vicaria),  sentono che “la nostra nave sarà la barca di caronte”.  Flore de Monte conosce bene – così come il poeta ha conoscenza profonda e sentita del lessico che adopera – “la ruggine che colora la fabbrica/e il mare di fronte alla fabbrica”. Gli operai lo sanno di andare alla guerra, di essere in guerra: “cosa vogliamo vogliamo tutto”.  È “intrinseca”, come scrive l’editore in una lettera privata, “la sensazione della sconfitta. Niente di originale, la storia è sempre la stessa e il destino pure. Penso alla similitudine stilistica con Balestrini con cui anche se lo abbiamo letto, non ne abbiamo condiviso il trionfalismo e l’esagitazione e l’esaltazione delle forme di lotta. Tuttavia la sua influenza si nota”. Così come questo “poetare operaio” recupera molto della letteratura  di fabbrica, dalla dannazioni di Di Ruscio e del suo “otto ore moltiplicate per tutta una vita che coprono il coraggio degli eroi e di tutti i santi”  agli  “abiti-lavoro” di Ferruccio Brugnaro, dal pagare il meccanico di Celeghin pubblicato su “Ombre rosse”  quando era  davvero “Ombre rosse” alle “fabbriche bugiarde” rese spettacolo dai casteddaios “Compagni di scena” pure ribattezzati come “compagni di cena”. Chi sia Flore De Monte ce lo dice sempre l’editore: “Dopo essere stato licenziato da Portovesme si è diplomato come perito industriale e temporaneamente assunto dalle ditte esterne per la costruzione della centrale nucleare di Oristano”. Cosa che bisognerà senz’altro evitare. Dice il quaderno in chiusura che “gli avvenimenti descritti sono frutto di fantasia”, casuali i riferimenti. Ma “poetare operaio” rende un grande servizio a tutte le possibili verità della storia che passa e trascorre, non sempre dalla parte degli operai.  Anzi quasi mai.   È che oggi non c’è più cosa reale dei non-luoghi che furono le fabbriche, niente è più tangibile degli outlet. Allo stesso modo allora niente è più materiale di fabbrica,  interiore concretezza, della poesia.
Natalino Piras

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