Silenziosamente intellettuali
16 Marzo 2010Francesco Tronci
Il momento del dibattito è uno dei presupposti fondamentali dell’agire politico. In esso vengono messi alla prova lo spessore e la capacità di persuasione dei processi che riguardano la conoscenza del mondo ( per modificarlo) nelle sue diverse fasi: l’analisi, il giudizio critico, il progetto. La scomparsa dell’organizzazione in partito come sede naturale del dibattito politico, la nascita di nuove forme e modi della comunicazione non completamente sostitutivi, la progressiva perdita di importanza delle istituzioni educative e formative ( in particolare, scuola e università) e delle sedi preposte al dibattito e al confronto delle idee ( ad es. le assemblee rappresentative) hanno ridotto quasi al silenzio le voci che più si distinguevano nell’individuazione dei problemi, nell’originalità delle proposte, nell’adozione di metodi di interpretazione e progettazione della realtà capaci di coinvolgere grandi masse di individui: gli intellettuali. Il silenzio degli intellettuali rappresenta uno degli aspetti del panorama politico-culturale dell’attuale società italiana e una delle ragioni della crisi e della frantumazione delle organizzazioni di sinistra e progressiste. La loro voce ha cominciato ad affievolirsi ancor prima della caduta del muro di Berlino e dell’avvento del berlusconismo in Italia. Sull’argomento ha scritto un interessante libro Alberto Asor Rosa. Pubblicato nel 2009 dalla casa editrice Laterza porta un titolo significativo, Il grande silenzio, e un sottotitolo che dichiara il metodo adottato nelle riflessioni, Intervista sugli intellettuali, abilmente condotta da Simonetta Fiori. Il testo in questione ha già suscitato un interessante dibattito su quotidiani e riviste e ha raccolto consensi ed obiezioni nella Rete. In esso l’autore fa i conti con la storia italiana del secondo dopoguerra e con la propria storia personale. Per queste ragioni i Dipartimenti di Studi Storici e di Filologie e Letterature moderne dell’Università di Cagliari hanno promosso un dibattito, alla presenza dell’autore e della sua intervistatrice, che si terrà il 25 marzo alle ore 16 nell’aula magna del corpo aggiunto della Facoltà di Lettere e Filosofia. A noi, che ostinatamente continuiamo a considerarci di sinistra e che consideriamo il concetto di intellettuale come estensibile agli organismi ed alle attività che promuovono l’informazione e la formazione (quotidiani, riviste, radio, televisioni, associazioni culturali, strutture della ricerca, ecc.) sembra, soprattutto in questo momento, un’occasione da non perdere.
18 Marzo 2010 alle 17:53
Caro Franco, dato che domenica è il giorno della poesia, ti mando in questo pubblico forum una mia poesia sul tema. Tanto per non restare silenziosi.
E i poeti?
I poeti si sentono speciali
e certo hanno ragione
per poetiche arcane
e sovrumane
ma non sono per nulla eccezionali.
La vita è eccezionale, ci sorprende
specie col risaputo,
come succede con amore e morte.
Casomai sono più normali
i poeti: sono sì più sbadati,
arrivano senza essere partiti,
chissà che ne consegue e che precede
impercepito;
spesso non sanno se son tristi,
allegri o chissà cosa,
si lasciano sorprendere di più.
Ma neanche questo è detto:
chi più è sorpreso
resta senza parole, loro no,
non rimangono a corto di parole
in cerca di soccorso e di compagni
di gioia o di sventura: la sorpresa
bella o brutta così magari cresce,
cresce perché trascesa,
quando riesce,
come dicono più filosofie,
su valori e misure sovrumane
in quanto condivise
da molti cuori e rispettive teste.
19 Marzo 2010 alle 09:35
Caro Francesco Tronci, Caro Giulio, grazie per la vostra bravura. Mi vengono in mente un grande romanzo “Tempo di silenzio” di Luis Martin Santos -il silenzio del tempo della dittatura franchista- e Ghiannis Ritsos, prigioniero politico dentro un’isola, non di famosi, che dice: “I poeti: questi consolatori del mondo da sempre sconsolati”. E un frammento poetante: Canta Seamus Heaney
canta il bardo d’Irlanda
da Mussapi tradotto
il giorno del Nobel
così cantò:
Isterricatu ispeanne
giacevo in attesa
supra su carvone ei sos muros de su rennu
tra la superficie di torba e le mura del regno
castannagliu appiratu
tra strati d’erica
e preta chin sar dentes de vridu
e pietre dai denti di vetro
su corpus meu it arfabeto braille
il mio corpo era alfabeto braille
pro calenturas incolovrinatas
per le influenze striscianti
soles manzaniles mi ordian in conca
soli aurorali brancolavano sulla mia testa
pro s’astragare pustis in pedes meos
per poi raggelarsi ai miei piedi.
Com’è che dice Mannuzzu riprendendo Gramsci che prende a metafora la nave di Nansen icastrata nel ghiaccio polare? Cogliere l’avanzamento, necesse est, anche nell’assurdo silenzio aurorale. E’ pure un segno, unu sentidu, del nostro essere a sinistra.