Un’ambigua avventura

1 Aprile 2010

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Pier Luigi Carta

Sono ai piedi di un edificio di 20 piani, arancione e verde all’esterno, di forma rettangolare. Uno come tanti nella città di Nantes, dove gli architetti esibiscono un’interpretazione perversa della coerenza architettonica. Aspetto una persona per la mia intervista, e nel frattempo chiacchiero con la ragazza mauritana che ho portato con me per aiutarmi nel scegliere le domande. È giovane e in sovrappeso, musulmana, e cerca di convertirmi. Dopo una mezzora arriva l’esperto: Severin Konin, post-dottorando ivoriano all’università di Cocody Abidjan, specializzato in Storia Medievale francese, ma i suoi interessi accademici si spingono fino alla storia dell’Africa contemporanea, “un’attività scientifica militante” mi conferma. Seguendolo per i corridoi dell’edificio, il Centro di Documentazione Internazionale, mi convinco di aver scelto bene il soggetto, stavo infatti per affrontare l’argomento migrazione da un lato che non mi era mai stato concesso: dal lato dell’intellettuale. Il suo taglio accademico lo caratterizza, sembra il cugino impacciato di Aimé Césaire o di Léopold Sédar Sénghor; infatti ammetterà poi, da buon africanista, che si tratta dei suoi modelli culturali.
Il dottorando ci fa entrare in uno studio spoglio e iniziamo la nostra conversazione sull’immigrazione: “il XXI° secolo sarà quello dei popoli in movimento”, D. Konin affronta l’argomento con questo slogan, già lanciato da Antonio Guterres, Alto Commissario dei Rifugiati alle Nazioni Unite. “Ad oggi il 3% degli uomini è nato in un paese straniero, e con i suoi 191 milioni di persone, rappresenta il 5° paese più popoloso del mondo”.

La sua formazione medievista lo obbliga a fare un breve inciso sulle migrazioni dell’XI° secolo, quando dal 27 novembre 1095, il papa Urbano II indice la prima crociata per combattere i musulmani, si è aperto un nuovo flusso disomogeneo di persone, le quali son rimaste spesso inserite nella terra d’arrivo. D. Konin parla del mediterraneo come un antica base di centri commerciali, come Cartagine, Tunisi, Tripoli, Casablanca, Fez, Marrakech, alle quali si aggiunsero a buon titolo città italiche come Pisa, Venezia, Bari, Genova, Napoli, Barcellona e Marsiglia.
Si sofferma un attimo in più sul caso storico dell’Egitto, soprannominata la “plaque tournante” dell’Europa, il mercato universale che accoglieva le merci provenienti dall’oriente e dalle due coste africane, dove la migrazione si confondeva col flusso di merci, animali e uomini da tutto il mondo conosciuto. Poi mi dice con voce stanca che non c’è bisogno di citare il fenomeno del Commercio Triangolare, altrimenti conosciuto come l’Infame Tratta o come “Migrazione silenziosa”, che ha mosso almeno 11 milioni di persone fino al 1850-60.
Questo per spiegarmi che le migrazioni non sono un nuovo fenomeno umano, ma in altri momenti storici favorivano entrambe le parti in gioco, o comunque sia rappresentavano uno scambio gagnant-gagnant, che contribuiva all’evoluzione di più popoli contemporaneamente.
La mauritana preme perché si parli d’attualità, e anche l’attenzione di Konin si sposta quasi subito sui movimenti contemporanei. Esordisce con una sentenza: “oggi la popolazione lascia l’Africa per l’Europa per colpa della miseria e della falsa informazione”, ecco l’opinione di un cervello non in fuga –sta per tornare a Yamoussoukro per esercitare– che rivela tutta l’inadeguatezza occidentale nell’essere all’altezza dei propri simboli e della propria pubblicità. Dal Senegal migliaia di giovani si sperdono in mare su delle piroghe in canne, altre decine di migliaia si incamminano attraverso il pietroso deserto libico, sfidando i 60° diurni e i -30° notturni per raggiungere una terra che risplende solo nelle notti d’oltremare, negli occhi dei giovani incollati al televisore, che assorbono la nostra cultura d’esportazione. Afferma inoltre che la più pericolosa fonte di disinformazione sono gli emigrati, i quali in ogni angolo dell’Europa conducono una non esistenza fatta di fabbriche, campi di raccolta, bassa manovalanza e monolocali sovraffollati. Loro dipingono ai loro conoscenti aspiranti migranti una società florida promettente una possibile fonte guadagno per ognuno di loro. “Così facendo incitano la gioventù a partire, lasciando il deserto nel loro paese d’origine”. I migranti più giovani sono avvantaggiati, perché, arrivando comunque tutti senza una preparazione di base, spesso neppure linguistica, devono crearsela in loco. Le scuole quindi svolgono un ruolo di integrazione fortissimo, e i ragazzi che sono in grado di accedere alle università sono spesso degli studenti capaci, con ottime competenze tecniche -le università scelte sono normalmente economia e ingegneria- che vengono sottratte al loro paese d’origine come un prelievo sanguigno costante. Senza contare la pressione psicologica usata dai loro parenti, che li incitano in ogni modo a partire.
Konin vuole essere realistico, ma mi detta le informazioni come se io potessi diffonderle in tutta l’Africa, per impedire a tutti i suoi fratelli, a tutte le persone come lui e la ragazza, di venire in Francia: “in questa nazione ora per un nero è difficile trovare lavoro qualificato; da questo punto di vista sono più evolute l’Inghilterra, la Germania o il Canada, lì la pelle non è una discriminante per il datore di lavoro, se non interferisce con i suoi affari”. L’Italia neppure la cita, Konin ammette di conoscere la situazione italiana, ma non si vuole soffermare, per lui il problema è la Francia, perché ha tradito la sua promessa di integrazione.

La mia ultima domanda riguarda le ONG di cooperazione e le associazioni umanitarie, voglio sapere com’è vissuta la loro azione dalla popolazione. La sua risposta mi sorprende: “molte lavorano bene, sono indispensabili, come Medicine du Monde, Medicines sans Frontières, anche la Croce Rossa, ma molte altre, sono delle agenzie turistiche o di collocazione al lavoro mascherate da imprese solidali, dove il personale sta rinchiuso negli uffici climatizzati nei centro città, guidando 4×4 per le strade sterrate, sprecando i soldi della Comunione Europea e della beneficenza”. Afferma però che è impossibile stilare la lista dei buoni e dei cattivi, dipende da sezione a sezione e da ufficio ad ufficio, ma l’unica cosa che contraddistingue una ONG utile da una dannosa, è la sua predisposizione ad ascoltare i bisogni della comunità, e comportarsi di conseguenza. PAM, l’UNICEF e l’ACE peccano spesso di questo difetto, per esempio dal Sahel, dove ogni anno il deserto mangia un altro pezzo di savana e la savana divora un altro pezzo di foresta, migliaia di migranti si spostano verso il Senegal, e tali associazioni, per far fronte all’emergenza umanitaria, propongono stoccaggi di farina di grano, un cereale inadatto alla dieta dei maliani. “Quel che serve è il costante contatto con gli abitanti”.
Questo esempio fornisce lo spunto per un argomento ancor più importante, come le migrazioni interne al continente o gli spostamenti sud-sud, ma non ha più il tempo di approfondire e mi lascia con una piccola metafora: “la migrazione dall’Africa all’Europa è un’avventura ambigua, come il titolo del romanzo di Cheikh Hamidou Kane, da un lato le rimesse inviate dai lavoratori al loro paese d’origine costituisce un introito oramai indispensabile per il continente, dall’altro lato è come togliere acqua da un terreno, l’erba si secca, gli alberi muoiono, e presto non resta altro che sabbia e sole”.

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