Diversità linguistiche

1 Novembre 2010

linguarossa

Marcello Madau

Sento la necessità, e spero mi siano perdonate le citazioni personali, di intervenire con alcune riflessioni politiche sulla lingua sarda.

Ho ascoltato il sardo di impronta logudorese dai primi momenti della mia vita grazie ai genitori, emigrati fra le nebbie padane nei pressi del fiume Adda. Una magnifica lingua che, nella nostra umidissima casa (la definirei eufemisticamente un monolocale) non parlavano in italiano: giusto con gli amici ‘polentoni’ attorno a casa nostra, e mio padre dentro casa quando si arrabbiava. ‘Avete un italiano perfetto’, ci dicevano. L’italiano della legge.
Praticavo il sardo in maniera assai ampia ogni estate, a casa dei nonni, amandone la grande musicalità, o forse mi sembrava tale la lingua degli affetti.
Per il resto dell’anno la lingua si ritrovava con poche persone, in quella Lombardia che era casa mia: qualche altro sardo che di sera papà portava a casa per piangere assieme ascoltando i canti in Re di Antoni ‘e Sole e Pedru Porqueddu. Naturalmente facendo cucinare mamma, che ogni tanto sbottava: “Giommarì, non mi ‘nde attas’ atteros de sardos” (Giommaria, non portarmene altri di sardi).
Con i primi amichetti e le scuole il mio sardo non fu più la lingua prevalente.
– – –
Ho studiato fra la Lombardia e l’Emilia. Il sardo a Bologna l’ho di nuovo parlato fra altri emigrati e creoli, per curiosità e scelta politica, cari amici che ancora oggi mi capita di sentire e con i quali fondammo ‘Su Disterru’. Tenevamo trasmissioni in limbas (ognuno a sa moda sua) a Radio Città (Stefano Benni, uno degli animatori della radio, agli inizi non aveva memorizzato le nostre invasioni e non riuscì a trovare i 103 mhz perché pensava a interferenze da qualche radio albanese).

Oggi si discute, e qualcuno nega che quella di autori e argomento sardo ma scritta in italiano sia letteratura sarda. Devo avere sbagliato qualcosa, perchè nella comunità scientifica di formazione e appartenenza do’ i miei contributi in italiano, e credevo che essi fossero – almeno quelli che riguardano il territorio sardo – contributi di archeologia sarda (ovviamente non solo: anche italiana e mediterranea). In italiano mi capita anche di contrastare quella modalità così coloniale di glorificare monumenti e passato che, se espressa in limba, non mi pare meno coloniale.

Non ho dubbi sulla utilità della difesa della lingua, ‘bene culturale’ di natura assai complessa, e neppure che debba costituire materia d’insegnamento, ma ne ho moltissimi sul fatto che possa essere strumento unificante.
Non credo che un sardo unificato possa e debba diventare, nel mondo contemporaneo, lo strumento di comunicazione prevalente fra i sardi, una tendenza realmente radicata, e non piuttosto la scelta di un ristretto numero di gruppi e circoli intellettuali. Tanto meno mi convincono i tentativi di costruire lingue posticce, senza regni né cancellerie né solidi gruppi sociali e alcuna possibilità di diventare prevalenti. In tali prospettive non vedo ragioni per meticciare – oltre la trasformazione reale di una lingua – il mio logudorese o il vostro campidanese.
Io penso che si rischino operazioni fortemente reazionarie, nazional-popolari, di taglio etnocentrico; dove si inseriscono le affermazioni che la letteratura di sardi scritta in italiano non sia sarda; e il particolare uso del ‘capitalismo-a-stampa’ per certificare lingue e scritture inventate (qua il marchio reazionario è molto forte: si crea infatti, non casualmente, una particolare unità tra falsi codici e false scritture dove l’antichizzazione si unisce al sacro. Appare persino il nome di Yahweh).

Un fattore linguistico declinato in maniera così forte e ‘centrale’ temo che possa essere fuorviante rispetto all’impegno per la produzione di livelli realmente efficaci e aperti di liberazione ed autogoverno, che non possono che essere costruiti nella critica radicale al capitalismo ed al mercato, e soprattutto con le forme più avanzate di comunicazione disponibili oggi: l’italiano e le lingue internazionali prevalenti, a livello economico e scientifico, assieme al mondo digitale.
Mi piacerebbe definire lo sviluppo democratico e inclusivo della mia comunità su altri valori, togliendo alla lingua – pur riconoscendone l’importanza – il ruolo di strumento prevalente e decisivo dal punto di vista identitario.
Si tratta di scelte politiche, di valori e quadri nei quali immaginarci e riconoscerci, senza sfuggire – tornando magari a quella dominante religiosa e dinastica che pure la storia ha cercato positivamente di liquidare – ad una contemporaneità fatta di grandi migrazioni, ingiustizie e differenze sociali intollerabili, fame, guerre, comunicazioni dilatate.
Fra le tante immagini immaginate dell’isola, una prevale nell’attrarre – a prescindere dalla volubilità di questa moda o di quel mito – la maggior parte degli ‘altri’: la Sardegna come luogo dove trovare qualità (ben oltre la moda e l’estetica) come un’alimentazione e un ambiente sani (o più sani rispetto a), dove lo scambio fra le persone non è, o non ancora completamente, mediato da denaro, profitto e il lavoro. L’immagine a volte è idealistica, e la realtà purtroppo peggiore. Ma resta un nucleo reale rilevante.

Un progetto di identità affascinante potrebbe essere quello per un paesaggio senza produzioni inquinanti nè basi militari, un lavoro per tutti e l’inclusione delle ‘differenze’ senza processi di colonizzazione interna, da coniugare – assieme a tutti i beni culturali – con forti valori qualitativi di sostenibilità ambientale e buona vita quotidiana. Sarebbe un progetto sul quale cercare alleati comuni, per i sardi residenti e per quelli emigrati (a partire dal mezzogiorno d’Italia), per rendere più forti e allargate le possibilità di immaginare e vivere noi stessi in maniera migliore.

5 Commenti a “Diversità linguistiche”

  1. Antonio Buluggiu scrive:

    Santo cielo, Marcello, anche tu cadi in questi stupidi fraintendimenti? Si parla di letteratura, non di appartenenza.
    (A.Marchese Dizionario di retorica e stilistica, Mondadori 1978)
    In una visione moderna l’ambito della letteratura è quello del linguaggio specificamente usato e finalizzato al valore estetico, sicché lo stile, la forma, che costituiscono la principale connotazione dell’opera letteraria, andranno considerati in primo luogo come scrittura. La specificità della letteratura va colta nella particolare sintesi estetico linguistica di profonde esperienze esistenziali, culturali, storiche di cui lo scrittore si fa interprete emblematico…

    Possiamo quindi dare una definizione della letteratura come L’INSIEME DELLE OPERE AFFIDATE ALLA SCRITTURA, PERTINENTI A UNA CULTURA O CIVILTA’.

    Che significa questa enunciazione?
    Significa che alla base di ogni letteratura vi è una lingua, il sistema di segni elaborato ed utilizzato da una comunità per comunicare e per comunicare si ha bisogno di: un mittente, un messaggio, un destinatario. Di un contesto, di un codice ed in fine di un contato ovvero canale fisico.
    Dove il Contesto è la realtà verbale o suscettibile di essere verbalizzata; il Codice è la langue,
    Il Canale è la voce, il libro, il mezzo elettronico. Bene: è indubbio che il popolo sardo abbia elaborato una propria lingua
    A questo punto, seguendo l’esempio di Ruben Verhasselt nel suo studio “Verso una letteratura ebraica normale”, ci chiediamo:
    Esiste una letteratura sarda normale? Il fatto stesso che ce lo chiediamo non è una cosa normale, e la colpa è delle colonizzazioni che abbiamo patito nei secoli; altrimenti la risposta sarebbe stata una sola: la normalità letteraria sarda è una letteratura scritta in sardo e basta.
    Per fare questa affermazione ho semplicemente usato la sua risposta sostituendo sardo ad ebraico e l’ho voluto fare perché c’è troppa gente ancora che sostiene che la letteratura sarda è bilingue.

  2. Marcello Madau scrive:

    Carissimo, spero che il segnale arrivi al destinatario. Ma, ti sarà noto in semiotica, i fraintendimenti – non sono in grado di definirli intelligenti o stupidi, o forse è imprudente usare tali categorie – dipendono dai codici utilizzati e se condivisi.
    Credo che si debbano prevedere convinzioni, e sensi di appartenenza, diversi. E che la letteratura c’entri qualcosa con il senso di appartenenza. Se non ne fossi convinto, non mi faresti tali osservazioni.
    “Alla base di ogni letteratura c’è una lingua”.
    Ancora prima un territorio e una o più comunità, con diversi strumenti linguistici.
    La dimensione estetica della lingua non può slegare la stessa dall’essere sistema di segni atto a trasmettere qualcos’ altro…
    Non credo che il sistema della lingua, anche nelle sue relazioni con la scrittura, sia il solo sistema di segni utilizzato da una comunità per comunicare. Neppure che la lingua sarda – anch’esso in sostanza di formazione coloniale – sia stato l’unico sistema linguistico usato dai sardi per comunicare. Dici che se non fosse stato per le colonizzazioni, la normalità letteraria sarebbe stata una letteratura solo in sardo, e basta. Appunto, sarebbe stata. Se non fosse stato per la storia, non sarebbero successe tante cose. Che peccato.
    Per gli anziani che leggevano nei paesi la Nuova Sardegna o l’Unione sarda, non vi era in genere alcun dubbio che fosse giornalismo sardo. Solo cattiva coscienza? Credo – come accennavo nel pezzo – che ciò valga anche per le scienze.
    Attenti perciò a non chiudere i codici, tanto meno ad imporli. Il processo di comunicazione, come è noto, non può essere separato dal processo di significazione. Come scrive Umberto Eco nel suo “Trattato di Semiotica generale” la relazione di significazione, ovvero il codice, può esistere a prescindere dal destinatario. E quindi anche se il destinatario è Antonio Buluggiu!

  3. Antonio Buluggiu scrive:

    In via del tutto eccezionale, per evitare il continuo richiamo alle 1500 battute (che il lettore conosce e che, se da noi costituisce ostacolo alla pubblicazione, talora viene invocato come censura), abbiamo pubblicato il commento integralmente.

    Che strano, Marcello ma trovo la tua tesi di Apartenenza, come la chiami, simile alla tesi identitaria.
    La tesi identitaria è sostenuta da Giuseppe Marci che, in Narrativa del novecento. Immagini e sentimento dell’identità (CUEC, Cagliari, 1991) – Romanzieri sardi contemporanei (CUEC, Cagliari 1991) –In presenza di tutte le lingue del mondo. Letteratura sarda (CUEC,Cagliari 2006), definisce impraticabile la tesi bilinguista perché il plurilinguismo non è una caratteristica peculiare della Sardegna ma è la normalità in Spagna, in Francia, in Belgio, in Jugoslavia e in Italia, dunque bisogna trovare una nuova strada e lui la trova ricorrendo alla politica: l’identità.
    La letteratura sarda, non importa in quale lingua sia scritta, è “sarda” perché è identitaria. Dice.
    Gli autori sardi si riconoscono dentro immagini e sentimenti identitari, perché la nostra è una letteratura scritta da sardi diretta, forse esclusivamente, ai sardi. Dice.

    Gli scrittori presi in considerazione da Marci sono però, perlopiù, scrittori in lingua italiana : Deledda, Lussu, Gramsci, Salvatore Satta, Dessì, Fiori, Solinas, Mannuzzu, Ledda, che bisogna dire, sono tra i più venduti in Italia; scrittori che hanno fatto la fortuna delle loro case editrici ma che, francamente, non credo che abbiano scritto tenendo presente solo i lettori sardi.
    La scrittura è un codice comunicativo di secondo grado in quanto rappresenta la lingua, cioè il codice comunicativo primario, per mezzo di segni grafici (A.Marchese op. cit 1978). L’utilizzo di un codice piuttosto che un altro, non è un discorso neutro: si possono scrivere libri in tutte le lingue del mondo trasportando dentro di essi cuiles e nuraghes ma non si fa letteratura sarda; Maria Giacobbe è considerata una dei maggiori scrittori della Danimarca perché ha scritto, anche di cose sarde, in Danese e, con il “Diario di una maestrina”, viene annoverata anche fra gli scrittori italiani. Quello che non si vuole ammettere è che :”La patria dello scrittore, di ogni scrittore di ogni parte del mondo, è la sua lingua” (S. Maxia 2004).
    La lingua nella sua forma parlata e la lingua nella sua forma scritta.

    Dunque la letteratura sarda non può essere altro se non quella scritta in sardo; in qualsiasi sua variante venga esso parlato in Sardegna.

  4. Marcello Madau scrive:

    Prima l’uso della categoria ‘stupidità’, ora quella di ‘stranezza’. In entrambe la figura retorica dello stupore rimanda ad una valutazione errata.
    Non ho problemi, né distanze, coi concetti di appartenenza ed identità, quanto con riferimenti identitari non inclusivi, che portano anche a piccole liste di proscrizione. Mi sembra preferibile e non meno ‘sardo’ trattare correttamente sia dal punto di vista empatico che da quello scientifico, ovili e nuraghi piuttosto che scrivere sciocchezze in sardo su cuiles e nuraghes.
    Si accusano sardi di scrivere non solo per i sardi (!!!) e fare la fortuna delle case editrici. Incredibile. Spero che l’obiettivo non sia quello di una lobby etnocentrica e poco competente che vuole solo il suo pezzettino di mercato, naturalmente assistito.
    L’identità è un disegno ed una scelta di componenti non ‘naturali’ in grado di produrre sistemi identitari diversi. Si può essere – mi auguro senza stupore – identitari praticando letterature di fonie e grafie diverse nella stessa nazione o comunità, una letteratura sarda – o a seconda dei punti di vista, italiana – italofona e sardofona.
    L’identità da r-invenire in un processo democratico e aperto di autodeterminazione non può identificarsi nella sola dimensione linguistica, in più sacrificando la maggior parte dei sardi. C’è un “bilinguismo imperfetto” da rendere migliore, piuttosto che un monolinguismo inventato e integralista.
    Forse alcuni sardi riproducono i meccanismi coloniali subiti e ragionano con il vecchio codice di Hammurabi.

  5. Marilena Puggioni scrive:

    Sempre più sono convinta che “… ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perchè ridiventasse se stesso in un tempo nuovo” (A. Baricco).
    Questo senza niente togliere alla nostra idendità o appartenenza.
    Oggi, rispetto a 30 anni fa, non me la sento più di sostenere certe tesi, Antonio, oggi sento la necessità di ri-considerare la mia “visione”.
    Un’idea è sicuramente rimasta per me, nel tempo, invariata, e cioè, per dirla come Marcello, che “c’è un “bilinguismo imperfetto” da rendere migliore, piuttosto che un monolinguismo inventato e integralista”.

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