Torniamo a “Su Connottu”
1 Novembre 2010Pierluigi Carta
Le rivoluzioni agropastorali non sono nuove in queste terre, un episodio simile si produsse già un secolo fa, nel 1906, quando la folla di Macomer prese di mira i caseifici. Altri tempi e altra foga, tentarono di distruggere l’esattoria e i centri di produzione e stoccaggio del cagliato, e oggi? Al massimo qualche bottiglia lanciata da qualche infiltrato e un finto agnello impiccato davanti alla porta del palazzo della Regione. Meglio le pecore morte contro gli ingressi della Regione in via Trento di vent’anni fa. Si occupa il palazzo del Consiglio Regionale, ci si scontra con le forze dell’ordine e si chiede a gran voce, almeno, il de minimis. Ma cosa è successo per strappare agli ovili e dare all’agone del conflitto politico gli attori di un settore della produzione così radicato nel territorio, e così filo Cappellacci fino a pochi mesi fa? È arrivato il libero mercato, che in quanto libero, sceglie e ha scelto di lasciare sugli scaffali il pecorino romano e fare invece incetta del similpecorino romano, o rumeno e australiano, accumulando invenduto in giacenze che ora regione, stato e mamma Europa non ricomprano, preferendo dare una mano al Grana Padano e al Parmigiano Reggiano, i modelli di punta della scuderia casearia italiana. Una ricerca nei meandri della realtà storica della pastorizia in Sardegna, per comprendere dove sta la cesura tra moderno e antico per un’industria che, nonostante la sua arretratezza è diventata il fulcro dell’economia isolana, ha valso a far emergere che non ci sono né cesure né subitanei sviluppi. Tra i volumi compilati dalla professoressa di Storia Economica Di Felice, dell’antropologo Giulio Angioni e dal sociologo Benedetto Meloni, traspare che i problemi lamentati oggi da chi pratica la pastorizia, sono endemici da più di un secolo, e che una buona fetta di colpa della situazione odierna si può attribuire agli industriali romani che hanno munto gli ovili sardi per una produzione, ormai secolare, di pecorino romano. Un altro cospicuo trancio di colpa lo si può accollare ai pastori che si sono adagiati sulla confortevole acquisizione periodica del latte Pecorino dei grandi industriali e degli intermediari, a volte anche locali, che hanno consacrato innumerevoli ettolitri di latte ovino per la produzione di un formaggio da mescola di bassa qualità e di basso costo. Il Pecorino Romano resta un formaggio colonizzatore che ha distratto buona parte della produzione locale, dirottandola sulla quantità –grande fino a 16 anni fa-, accantonando la qualità –alta per altri tipi di formaggio. Verrebbe voglia di sottoscrivere la frase di Benedetto Meloni –Furat ch’e venit da-e su mare- e il vecchio motto del “piccolo è bello”, perché se si è alla ricerca di una soluzione che non passi perentoriamente da mamma Europa e da mamma Regione, la si può trovare nella valorizzazione del prodotto locale, attraverso la diversificazione e l’alta qualità. La Sardegna c’è riuscita col vino e non ci sono ragioni perché non ci debba riuscire col formaggio –salvo i motivi dati dai gestori dei consorzi, cooperative e agronomi, che spingevano sulla produzione del Romano quando era già in nera crisi, accumulando giacenze enormi. La sbornia di profitto e l’orgia di contributi che dagli anni ’60 ai ’90 ha investito il settore, ha contribuito ad incentivare investimenti superflui in macchinari e strutture che non hanno incentivato il fattore essenziale: la produzione d’alta qualità. Trattori lucidi e mungitrici inutilizzate sono il simbolo del pastore-imprenditore e del pastore “mungi e fuggi” che hanno creduto fosse finita l’era della quotidiana cura degli armenti, e che fosse iniziata l’era della meccanizzazione miracolosa. Nel libro “Le Opere e i Giorni” di Giulio Angioni, da un inciso di Benedetto Meloni, figura che il Padre Gemelli vantava già dal 1700 le straordinarie capacità lattifere dei nostri ovini e un secolo prima il formaggio isolano era apprezzato dalla gente ordinaria ma tenuto a distanza dai palati delle élites, per il suo sapore eccessivamente salato. Ed è proprio questo sapore che oggi sancisce la differenza tra Pecorino Sardo e quello Romano, tra l’alta e la bassa qualità, tra lavorazione a latte crudo e lavorazione del pastorizzato. Una voce sarda autorevole in materia, Giuseppe Cugusi, originario di Gavoi e operante vicino a Fordongianus e Paulilattino, dice infatti che con la pastorizzazione si uccidono sia i batteri cattivi che quelli buoni, e si standardizza il gusto. –Molto spesso le cooperative- afferma –sono costrette a pastorizzare. Raccolgono latte di tante zone diverse e non possono garantire riguardo le condizioni sanitarie e di trasporto, ma così facendo il prodotto perde e si “sputtana”. Con la sua esperienza quarantennale qualche consiglio è certamente in grado di darlo, la sua azienda ed il suo prodotto ne sono la prova. Egli sostiene che se si alza la qualità si potrebbe alzare il prezzo davanti ai compratori, e saltando i vari livelli di intermediari, relazionandosi direttamente col cliente, si aumenterebbe ulteriormente il profitto, -ma per far ciò- ribatte –il prodotto deve essere valido di gusto, di aspetto e di aroma.
Giuseppe Cugusi insiste sulla cura per il gregge e per il terreno, sul nutrimento in granaglie –granturco, orzo, piselli e fave- che danno un miglior sapore al latte ma ne diminuiscono la quantità rispetto ai mangimi; sostiene che il mercato è vasto, ricettivo e in espansione, basterebbe solo collegarsi in linea diretta con una rete di piccola clienti evitando i grandi compratori –capaci di stroncare un’azienda qualora vengano a mancare- infatti lui ormai c’è riuscito e vende solo alla ristorazione e ad enoteche in tutta Italia e in vari centri d’Europa. Il succo del suo discorso si può riassumere con una massima, tra l’altro già comunicata a Soru a suo tempo, prima che l’elettorato agropastorale “gli tagliasse la testa”: -per andare avanti bisogna tornare indietro. Forse è per questo che, come dice il sociologo Meloni, i pastori più competitivi in Francia stanno già rispolverando il vecchio uso della transumanza, non quello su quattro ruote, ma a piedi, col bastone, come simbolo di qualità e bandiera di autenticità e legame col territorio.
11 Giugno 2016 alle 13:00
Tutto condivisibile, tranne che siano gli agronomi genericamente a spingere verso il romano e la bassa qualità.
Giuseppe Ruiu Agronomo