Un corpo che non voleva morire

1 Febbraio 2011

dettori

Giovanni Dettori

I morti, d’altronde, sono fuori dal tempo, al pari dei morenti/ e di tutti i i malati costretti a letto in casa o negli ospedali,/e non soltanto loro, basta già un certo grado di infelicità personale/per tagliarci fuori da qualsiasi passato  e da qualsiasi futuro… (W.G. SEBALD,  Austerlitz).
Sapere e non parlare:/è così che si dimentica./Quel che viene detto acquista forza./Quel che non viene detto tende a non esistere. (Czeslaw MILOSZ, Leggendo il poeta giapponese Issa).
“Il giovane medico ha ricoperto il corpo della nana con un velo. Si è portato la mano alla nuca: – Venga, andiamo, non è mai bene che un paziente veda un donatore. Mi ha preso sottobraccio: – Credo che prima o poi lassù, – e ha puntato l’indice al cielo, – qualcuno dovrà chiedere scusa a questa ragazza, dato che quaggiù nessuno l’ha fatto”. Risarcire i morti rimasti senza giustizia: potrebbe essere  questo l’assunto del libro di Francesco Abate e Saverio Mastrofranco dato alle stampe l’agosto dello scorso anno (Einaudi, Stile libero, 2010.) Orchestrato come una partitura in quattro movimenti narrativi – prima, durante, dopo, molto dopo -, questo libro “a quattro mani” fuoriesce di forza  dalla corrente narrativa di genere, opportunistica e venalissima che continua a imperversare e ha finito col contagiare anche il “nuovo firmamento” letterario della Sardegna. Sovente mero esercizio della umana vanità degli autori, che parrebbe si propongano soltanto di sorprendere con qualche espediente sensazionalistico, qualche  posticcio reperto etnico o linguistico a sigillo della propria “irriducibile” identità o rude appartenenza. Qua e là qualche  inedita mattanza. Per chi vi cercasse fossero appena i fumi delle bistecche al sangue e delle finzioni “pulp” dei nostri tardi e attardati sopravvissuti a mondi deleddiani, trascinando nell’oggi un universo definitivamente sepolto sotto le ceneri di uno sviluppo senza progresso – la Sardegna oggi, signori! – non potrei che sconsigliarlo. O proporre come controveleno per contrasto. “Quando si nomina Grazia Deledda – rispondeva Mannuzzu in una vecchia intervista – bisognerebbe sempre aggiungere che qui e ora nessuno – proprio nessuno qualunque sia la sua stella – si accosta al senso del bene e del male che lei trovava, come necessità di tutto, nella scrittura”. In Abate è questo senso che si ritrova. Il politicamente scorretto e, insieme, la “pietas”  e la “charis” dell’anima “religiosa” di Sergio Atzeni: i legami di fraternità, di compassione e di grazia. Così lontani e staccati dai bigotti conformismi di oggi. Dire che “Chiedo scusa” è un libro necessario, non è affatto un modo di dire, ancora meno un vieto luogo comune: a lettura ultimata non si è più la stessa persona di prima. Si è acquisito qualcosa che prima non si conosceva. In qualche modo si è trascorsi dalla pesantezza alla grazia. Limpida, tesa, con un umorismo dolente e acido che direi, questo sì, visceralmente “sardo”- penso a Lussu a Satta a Pintor -, la scrittura di Abate mette in scena luoghi  e personaggi non  abitualmente frequentati e tutt’altro che seducenti: se si fa eccezione, forse, per la malattia di Davide Pani “piscia ferro” raccontata con ariosa levità nel “Sardinia Blues” di Flavio Soriga. Mette in scena il patire. E in questo patire, Abate potrebbe essere piuttosto un  fratello di Fritz Zorn autore di un libro indimenticabile pubblicato anni fa da Cappelli – “Marte. Il cavaliere, la morte e il diavolo” -, autobiografia di un giovane che comincia a vivere solo quando comincia a manifestarsi la malattia. Un tumore alla gola come somatizzazione, scrive, delle “lacrime non piante”, della vita non vissuta. Ospedali e sale operatorie, degenti terminali o in attesa di trapianto, corsie di degenza e celle-frigo di camere mortuarie. Quanto basta ad offrire uno spettacolo che difficilmente si presterebbe a giochi di prestigio, a imprevisti garbugli narrativi. Nessun segreto, nessuna indagine da risolvere: la sola nuda vita di malati soli, lui fra gli altri, la quotidianità sofferente di un reparto. Appena di questo, non altro, si tratta. Di questo Abate racconta. Perché? Perché la storia che Abate racconta, per quanto quasi spudoratamente autobiografica, la vicenda di Valter, diventa in questo anche la storia di tutti. Tutti quelli che in un modo o nell’altro, direttamente o attraverso il soffrire delle persone più care, hanno avuto a che fare con la malattia e la morte. Il patire dell’uomo. La sofferenza del mondo. Chi non ha mai mangiato il pane del dolore – sembra  ci si voglia ricordare, con Goethe -, chi non ha mai trascorso le ore più profonde della notte piangendo e aspettando il mattino questi non conosce le “ potenze celesti”. Potenze e dei che nel tempo si sono fatte malattie. Abate sa da sempre che la disgrazia è notoriamente uno degli elementi della scrittura e che quasi non esiste scrittura che non nasca dal dolore: fisico o morale che sia. E se, a dirla con le “imágenes”Borges, il dolore morale si sopporta, il dolore fisico, finché dura, diventa intollerabile: se durasse troppo potrebbe uccidere un uomo.  Sa che tutto ciò che accade a uno scrittore, nei suoi momenti belli e nei suoi momenti terribili,  deve essere considerato da lui come strumento o come materiale di scrittura. Sa infine che di questo bisogna parlare, testimoniare perché quando chi, come lui, ha attraversato gli inferni della sofferenza morirà, resterà sempre un’esperienza che in qualche modo si è riusciti a trasmettere agli altri. A con-dividere con gli altri. Restasse soltanto appena questo, non altro: compatire e pietas. Ma sa anche, molto dopo, che alla fine, risalendo dagli inferni spalancati da Pandora – fatica malattia vecchiaia pazzia passione e morte -, anche la sventura può essere trasformata in qualcosa di diverso che ancora nel vaso rimane:  “solo la speranza. Capito? La speranza. E noi coltiviamo speranza”. Quella di Valter è  una vita di sfigato urbano, parlantina sciolta e battuta facile, che si dilapida e trascina  nella ripetizione di  abitudini e gesti. Di insofferenze in famiglia che ha lasciato e scazzi nel lavoro di cronaca al giornale,– L’Unione Sarda si suppone -,  disgustato dallo squallido servilismo di colleghi tediosi e arroganti. Sempre in agguato per arraffargli l’occasione di qualche notizia sensazionale e mettersi in buona luce presso il caporeparto “temperamine”, che lo ha assunto dopo due anni di prova. Perché  lo fa ridere ed è di buona compagnia. Perché, forse, gli ricorda  com’era lui da giovane. Qualche ingaggio saltuario come coordinatore di dibattiti in eventi congressuali di ogni genere, dal campo medico alla nautica di diporto, organizzati da una coppia di laidi figuri senza doti umane ma bene equipaggiati di facoltà imprenditoriali: Barletti e moglie, Mastia Koruscko. Vive solo da tempo. Scoglio e radice alle sue derive, quasi spiriti guida  – come lo spettro di suo padre e gli altri fantasmi di famiglia che cominceranno a visitarlo ogni volta che i sensi si perdono -, due amici costanti che lo marcano da vicino: Chiara,  una ragazza madre, e il dottor Todde  un oculista “color cioccolato per bambini, tutti i mesi dell’anno. Molto tenero e dolce […]. Un buon oculista fa sempre comodo”. Ma  accade che sotto questa piatta superficie di quotidianità, si annidi  un nodo tenace e irrisolto che cova e negli anni lavora.  Che Valter  si porta dentro dall’età di due anni: un’epatite virale che rode lui e  rode anche Gabriele, suo padre. Limandone i giorni, rodendone gli anni. Tra ininterrotto entrare e ininterrotto uscire dagli ospedali. Accade anche che suo padre abbia rifiutato la sola possibile soluzione, il trapianto di fegato, muoia all’età di cinquantatre anni e Valter gli sopravviva. Tra laceranti  – e molto umani! – sensi di colpa. Essergli sopravvissuto diventa a un tratto rimorso penoso di fronte alla persona che non c’è più. E, allo stesso tempo, recriminazione: si sono ammalati insieme, per anni hanno fatto insieme fronte comune al male. Ora si sente tradito e abbandonato “così da solo con la malattia”. Fine 2008. “Una goccia rossa, prepotente, si è infranta sul tavolo di cristallo. Poi si è espansa, densa come ceralacca. Non l’ho notata. Neppure i miei colleghi”. E’ l’incipit del libro. E il preludio alla sentenza finale. A una definitiva solitudine. E comincia la lotta, una disperata, lucida, rabbiosa battaglia: riuscire a tenere a bada la malattia  fino a quando una persona, morendo, abbia deciso di donare una parte di sé agli altri e dare tempo allo staff medico di operare un trapianto. Dal suo caso particolare, dal suo personale dolore, Valter accede alla sofferenza di una universale condizione – la malattia, la morte -, che segna ogni esistenza umana . Ma accede, più precisamente a qualcosa di mai saputo prima e che per lui è una sorta di illuminazione: che nell’altro e nel diverso si può riconoscere il proprio fratello. E che dietro e prima di ogni trapianto c’è da parte di qualcuno che gli resterà ignoto un sacrificio sacro che lo renderà possibile. Accede e fa il suo debutto nella comunità del “popolo trapiantato”. Se fino a quel momento ha avuto poco o affatto “bisogno degli altri” allontanandosi da loro e allontanandoli da lui, ritenendo gli dovessero quello che mai gli hanno dato, apprenderà a rimettere loro questo debito. Ad accettare  che essi siano diversi dalle creature della  sua immaginazione. Che anche lui è “altro” da quello che s’immaginava di essere e che, saperlo, è il perdono. E che se il corpo vuole non solo non morire ma rinascere, ci deve essere prima la rinascita dello spirito e del cuore. E’ nella comunità del popolo trapiantato, nel contatto con l’altro e col diverso, con un inconsueto e bizzarro maieuta – il signor Ercole Pala -, che  Valter apprenderà a rimettere ogni debito, a ri-nascere anche lui diverso e altro, dalla contingenza – caso, fato, incertezza – che aveva marcato fino ad allora la sua vita. Una delle pagine più intense, esilaranti, grottesche. Trascrivo qualche frammento. “Abbiamo fatto un mese e mezzo insieme, io e il signor Ercole. Abbiamo passato giorni interi a sfidarci a scopa, io e lui. […], mattine intere a raccontarci barzellette, io e il signor Ercole. L’ho fatto ridere fino a farlo soffocare. Le mie transaminasi erano di nuovo schizzate oltre i parametri di guardia, le sue stavano affogando in un mare di vermentini, grappe, amari. Aveva braccia tatuate di schizzi blu tendenti al verde. Una Madonna di Bonaria, un cuore insanguinato, un pugnale (sanguinante anche quello), una falce e martello nel culo, un Mussolini impettito nell’inguine. – Per essere stato un delinquente è una persona molto educata, – disse mia madre. […] Era appena uscito dal collegio di Buoncammino, sei anni e otto mesi per rapina a mano armata. Gliene restavano ancora due da fare ma lo lasciarono andare, un po’ per buona condotta un po’ per gravi motivi di salute. Aveva fatto solo due mesi in libertà poi l’avevano rinchiuso nuovamente, in ospedale”. E’ al decimo morto, reparto uomini, che il signor Ercole conduce Valter – Seguimi – “nello sfintere dell’ospedale”, verso una luce azzurra una scrivania e un infermiere di guardia: le camere mortuarie. “Sul letto in marmo c’era un uomo lunghissimo e magrissimo. Un lombrico”. Ercole Pala  non sa chi sia. Sa soltanto che è il “nostro morto numero dieci, camera 11 reparto uomini. Che nessuno era mai andato a fargli visita: come lui – tranne una volta un”vecchio amico”, un maresciallo dei carabinieri -. Sa che all’orario visite dava da mangiare ai piccioni: come lui. Non sa altro. “Si fece il segno della croce […]. – Io passo la notte qui. Tu invece torna indietro. Ci vediamo domani”. Perché aveva passato la notte con quel morto? “Perché non ci sarebbe stato nessuno a vegliarlo e a consegnare la sua anima ai becchini. E questa non è una buona cosa. L’ho fatto io per lui. Così magari un giorno qualcuno lo farà per me”. Il signor Ercole morirà una settimana prima che Valter venga dimesso. Alla sua sepoltura non si presentò neppure il piccione che gli teneva compagnia durante l’orario di visite  parenti. Non dimenticherà la sua lezione di questo vecchio delinquente: lo marcherà per sempre. Aiuterà Valter a portare alla luce un diverso se stesso. Imparando a  chiedere scusa. ”Perché prima o poi qualcuno deve iniziare a chiederti scusa. Perché la natura è crudele, perché si accanisce sempre con gli stessi e perché prima che le scuse ti arrivino dal Cielo bisogna che almeno in terra qualcuno inizi a chiederti perdono”. Perché non basta non fare mai nulla di male. Nel momento più critico del secondo drammatico intervento, dopo un’infezione, sarà il corpo di Valter, non la sua mente a dire ancora “Sì” e a reggere l’indicibile. Un corpo che si è allenato e preparato per anni a quel giorno, ad affrontare l’inferno.  Garantiranno per lui, aiutandolo a risalire a galla, a rinnovarsi nel corpo e nello spirito i fantasmi di famiglia presenti e vigili: “alla fine l’unica cosa che conta è l’amore che hai dato e quello che hai ricevuto. Hai capito, Valter? Il resto è nulla”. […]“Mio padre si è avvicinato e insieme ai nonni, con forza, ha squarciato la parete gommosa che mi imprigionava. – Ora vai, – mi hanno detto. E sono riemerso”. Molto dopo. Come  per  l’ex agente dell’Fbi Terry McCaleb  trapiantato di cuore – nel film Debito di sangue di Clint Eastwood -, un incontenibile impulso spinge Valter sulle tracce del suo donatore. Ha cercato informazioni e ha avuto  conferma. Ha salvato una foto, una pagina: le date corrispondono. “La sua morte, la mia rinascita. L’articolo diceva che i suoi organi erano stati donati. Il cuore a Roma, un rene in Toscana, il resto in Sardegna. Tutto il resto. Fegato compreso”. Da un anno, continua a toccare quella foto con l’indice. Ogni pomeriggio. Finché un giorno Valter si licenzia dal giornale ma chiede al capo ancora l’ultimo servizio: accompagnare fino alla sepoltura il cadavere di una giovane prostituta dell’Est, assassinata e buttata nel piazzale del nuovo cimitero fra i sacchi neri della spazzatura. Come il signor Ercole, non la attende nessuno, non la vuole nessuno, il viaggio lo pagano il comune e l’ambasciata. Le periferie di una città sarda non diversamente dagli hinterland di tutti gli altri inferni del mondo: il nostro sviluppo e il nostro accelerato progredire verso il nulla. La nostra omologante globalizzazione. Non dice no, il capo: a lui sta bene. Senza molta originalità, vede già il titolo: Mentre morivo, come nel romanzo di Faulkner. Ha soltanto una cosa da chiedere, un’ultima domanda da fare: perché?  – Per me, per signor Ercole e quello che mi ha insegnato.

2 Commenti a “Un corpo che non voleva morire”

  1. Argiolas Pino (alias Rino) scrive:

    Ho letto diverse recensioni sul libro di Francesco Abate, compreso quella molto bella di Michela Murgia su la Repubblica, ma questa di Demuro è FANTASTICA.
    Per mia sfortuna /fortuna, sono un trapiantato di fegato che ha vissuto con Francesco la stessa odissea a distanza di 15 giorni, ( salvo l’ultima dell’infezione che però è una cosa solo sua tanto per non farsi mancare niente), il libro è bellissimo, vero, verissimo, tragico ma bello, serio tavolta tremendamente serio, ma anche scherzoso e comico( Vogliamo andiamo..l’orario delle viste e terminato).
    Un libro che a Francesco mancava, un libro che poteva scrivere con l’intensita con cui l’ha scritto solo dopo aver compiuto un viaggio così tremendo con la morte in arrivo che vedi sempre meno lontana con il mantello nero e la grande falce. E all’improvviso “l’Angelo”( con uno squillo di telefono che rompe l’orrendo silenzio di quel cellulare che non aveva mai squillato ma che doveva essere sempre pronto) che annuncia un meraviglioso Dono, il tuo nuovo fegato donato da una persona meravigliosa che con il suo sacrificio ti permette di ricominciare una nuova vita.
    Sono sensazioni tremende, bruttissime perchè senti la fine in arrivo, ma anche bellissime ed indescrivibili tanto sono forti, quando “l’Angelo” ti annuncia che il calvario sta per finire che puoi ricominciare ad essere un ” nuovo uomo” e non un malato da buttare.
    Francesco è stato bravo, bravissimo. a raccontarlo a dare dignità al trapianto .
    Grazie france

  2. Giulio Angioni scrive:

    E poi dicono che l’arte, la letteratura, la poesia, deve essere ‘disinteressata’, che deve ‘trasfigurare’ la vita (e la morte?), che non deve servire che a se stessa, è arte per l’arte o non è. Ita chi dd’essint iscìpiu a ita serbit!

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