68 anni di apartheid in Palestina
16 Maggio 2016Fawzi Ismail
Il 15 maggio 2016 si ricorda il 68° anniversario della Nakba, ovvero la tragedia del popolo palestinese, data in cui i sionisti ebrei hanno proclamato la costituzione dello Stato di Israele (14 maggio del 1948), occupando il 78 % della terra palestinese, cacciando circa un milione di persone dalle loro terre e distruggendo più di 450 città e villaggi.
Una vera e propria pulizia etnica, come teorizzava già nel 1895, il fondatore stesso del sionismo, Theodor Herzl: “Dovremo incoraggiare questa misera popolazione ad andarsene oltre confine procurando loro un lavoro nei paesi di destinazione e negandoglielo nel nostro. Sia il processo di espropriazione che quello di allontanamento dei poveri devono essere effettuati con discrezione e cautela”.
Tutto questo è accaduto sotto l’occhio e la complicità della comunità mondiale in particolare le potenze Europee che hanno armato, finanziato e sostenuto politicamente le bande sioniste che hanno seminato il terrore compiendo numerosi massacri (uno fra tutti quello di Deir Yasin), e costringendo un milione di palestinesi a fuggire sotto le minacce delle armi e a rifugiarsi in campi profughi, simili a veri e propri campi di concentramento.
I campi tuttora, dopo più di 60 anni, testimoniano le condizioni disumane in cui sono vissute e vivono diverse generazioni di profughi, nonostante vi siano numerose risoluzioni delle Nazione Unite, in particolare la 194 del 1949, che sanciscono il diritto al ritorno dei palestinesi alle loro case e il risarcimento per le sofferenze subite. Queste risoluzioni, rimaste inascoltate dallo Stato ebraico occupante, e il silenzio complice della comunità internazionale, hanno incoraggiato Israele il 5 giugno 1967 a invadere e occupare il resto della Palestina storica, Cis-giordania e Striscia di Gaza, le alture siriane del Golan e il Sinai egiziano, restituito dopo gli accordi di Camp-David nel 1979.
Dal primo giorno di occupazione militare israeliana di Gerusalemme, Cis-giordania e Striscia di Gaza, le forze militari hanno cominciato a praticare la discriminazione razziale contro i non ebrei, talvolta in modo illegale altre volte legalizzata da leggi dello Stato ebraico, con l’unico scopo di costringere i palestinesi a lasciare le loro terre, perché più facilmente si potesse realizzare il sogno sionista “più terre occupate meno arabi dentro”.
Il primo atto fu l’annessione allo stato ebraico della città santa di Gerusalemme, proclamata “capitale eterna” di Israele, dichiarando così, di fatto, i suoi residenti originari, i palestinesi, come comunità straniera senza diritti e mettendo una serie di restrizioni come la negazione dei permessi di ristrutturazione delle abitazioni e la costruzione di nuove case, nonché la perdita della residenza a coloro che hanno un posto di lavoro fuori città. A ciò si aggiungano le condizioni in cui versavano i territori occupati di Cis-giordania e Gaza, rese più drammatiche per la massiccia confisca delle terre fertili e dei pozzi d’acqua, e per la costruzione degli insediamenti su terre confiscate in barba alle decine di risoluzioni delle Nazioni Unite e alle critiche verbali della Comunità Internazionale, che non hanno mai trovato ascolto da parte dello Stato occupante, il quale si considera e si comporta come un Stato al di sopra della Legge.
Così oggi troviamo che il 60 % dei territori occupati nella guerra del 5 giugno1967 risultano confiscati e abitati da circa 600 mila coloni emigrati negli anni ’90 del secolo scorso dall’Europa dell’Est; mentre la restante parte, abitata dai palestinesi, si trova frammentata da una rete di strade e circonvallazioni che collegano gli insediamenti ebraici tra di loro, con il divieto di accesso ai palestinesi e percorribili solo da ebrei. A queste strade si aggiungono i 550 blocchi stradali permanenti dell’esercito di occupazione.
Tutto ciò limita in modo gravissimo il movimento delle persone e delle merci strangolando di fatto la vita economica, sociale e culturale della società palestinese. In linea con questa politica è la costruzione del muro di separazione razziale, “ il muro della vergogna”, un serpente di cemento che si addentra nei territori palestinesi occupati lungo 800 km ed alto 8 metri.
Il muro non separa Israele dalla Palestina, costituendo come si vuol far credere una barriera di sicurezza, ma si addentra nei Territori Occupati separando irrimediabilmente gli abitanti dei villaggi dai loro campi, i campi dalle fonti d’acqua, i centri agricoli dai mercati, i bambini dalle loro scuole, gli operai dai luoghi di lavoro.
Secondo una ricerca dell’ONU le vite di oltre 700 mila palestinesi sono state sconvolte dalla costruzione del muro per la perdita dei mezzi di sostentamento. Tutto ciò in conformità con la politica del sionismo come già descritto 100 anni fa da Theodor Herzl nel suo libro, Lo Stato ebraico, “in Palestina dovremmo costruire parti del muro dell’Europa contro l’Asia, un avamposto della civiltà contro la barbarie”.
Quanto gioca in tutto questo la cooperazione militare tra Israele e USA e molti paesi Europei tra cui anche l’Italia?
Israel Shahak, il presidente della Lega Israeliana dei Diritti dell’Uomo, nei primi mesi della prima Intifada del 1988 scrive: “In quale condizione l’attuale gruppo dirigente israeliano potrà operare il desiderato ‘trasferimento’ (nel linguaggio sionista la deportazione dei palestinesi, n.d.a), e continuare a ricevere l’ugualmente desiderato denaro americano? (…) La migliore risposta che io posso proporre a questa domanda essenziale è che il ‘trasferimento’ potrà essere tentato in due circostanze: o per una guerra a iniziativa di Israele, o in una situazione in cui gli interessi americani in Medio Oriente, cioè i giacimenti petroliferi del Golfo, fossero seriamente minacciati. Israele si presenterà in questo caso come il solo alleato di peso per gli americani nella regione (…). Israele diverrà un alleato talmente importante per gli USA in quanto ‘difensori della civiltà occidentale nella regione’, e avrà diritto di applicare una politica di tipo nazista, come ad esempio l’espulsione totale, (sempre dei palestinesi, n.d.a). Non dimentichiamo che anche i nazisti all’epoca pretendevano di ‘difendere la civiltà occidentale contro il comunismo’ e che molti cedettero”.
Fawzi Ismail è il presidente dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina
Immagine dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico Cineforum Palestina Fondazione AAMOD Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila