Gli italiani sono (diventati) razzisti? (2)

16 Luglio 2008

Razzismo
Giulio Angioni

La cultura antropologica di sinistra è, anche suo malgrado, responsabile della divulgazione dell’idea che l’atteggiamento razzista, cioè infe­riorizzante verso l’altro, l’etnocentrismo più in generale, sia qualcosa di universale, qualcosa di biologico, di geneticamente ereditario, che avremmo tra l’altro in comune con altri anima­li. Per cui sarebbe un obbligo per tutti, educatori ed educati, metterci la sordina e cercare di eliminare questa propensione della specie umana a inferiorizzare il diverso. Per cui il raz­zismo si supererebbe come si fa imparando a controllare gli sfinteri da bambini. E anche l’aver compreso questo, e l’aver sviluppato atteggiamenti di tolleranza, è attribuito da certuni alla superiorità della cultura o civiltà occidentale, presenta­ta sbrigativamente come la sola capace di “rieducarsi” in senso non etnocentrico e non razzistico. Viene qui da considerare che in certi con voce in capitolo questo argomentare raggiunge livelli di raffinatezza molto sottili. Ma almeno una comune fallacia è spesso evidente: l’etnocentrismo non è ineluttabile e non è universale. Tanto meno i suoi estremismi razzisti, che invece sono tutti prodotti di vicende storico-culturali determinate. La storia e l’etnografia ci mostrano casi di non in­feriorizzazione del diverso non molto meno numerosi dei casi di sua inferiorizzazione. Anzi, non è per nulla raro l’atteggia­mento di “superiorizzazione” del diverso, dell’estraneo, dello straniero, del non moderno. Un tale fenomeno di “superiorizzazione” dell’altro è posto da certuni all’origine della disfatta repentina degli im­peri azteco e inca al primo contatto con la masnada dei Cor­tez e dei Pizarro. Ma senza fare esempi esotici, questo è, per me sardo, il caso di un certo senso comune in Sardegna, dove la storia ha fatto sì che, come è successo per tante al­tre genti sottomesse a potenze esterne, chi viene da fuori è “istintivamente” sentito e considerato se non migliore, comunque superiore, più capace in questo o in quest’altro, mentre i locali sono defi­niti “piccoli neri e tonti”. In Sardegna infatti il forestiero troppe volte è arrivato in armi, dominatore, padrone, signore, gallo, non gallina su cui esercitare il diritto di beccata, finché non è arrivato il successivo a renderlo cappone. Ora però il forestiero sbarca anche nelle isole minori italiane anche da poveraccio, zin­garo o africano, e non ci arriva più solo con la sua aura esotica, negretto di gesso da usare come soprammobile: ma il sentimento di superiorità occidentale è a disposizione da tempo anche qui, sebbene l’essere a pieno titolo occidentali, europei, si faccia ogni tanto problematico, con crisi di iden­tità perché una delle preoccupazioni più forti di luoghi occi­dentali marginali come la Sardegna è appunto quella di “man­tenersi” in Occidente, davanti al pericolo di scivolare verso l’Africa vicina, verso il Terzo Mondo. Chi finora si è abituato a ritenere che il razzismo oggi sia costituito principalmente dalle imprese di intolleranti verso lo straniero marginale povero derelitto e delinquente, o di giovinastri co­me i naziskins o le ronde padane, si rende incapace di capire che, da occidenta­le, egli è compartecipe di una nuova forma del vecchio e collaudato razzismo che lo fa sentire al mondo in una posizione di supe­riorità, ovvia e indiscussa nei più, e, se discussa, quasi solo in funzione di critica agli eccessi violenti, o di cirtica ai nostri costumi criticabili, alla maniera della critica borghese illuministica del tipo delle Lettere persiane di Montesquieu. Una forma rinnovata di discorso razzista è quello alla Fallaci dell’irrisione furiosa della sua remissività disfattista dell’occidentale che si fida e s’illude sul non-occidentale, in primis sul mondo islamico. Queste forme odierne del secolare collaudato senso di superorità occidentale, fino a qualche anno fa mite e condiscendente, alieno da violenze e intolleranze, anzi abituato a essere collaborativo, caritatevole, cri­stianamente ecumenico, terzomondista, relativista, pietoso, fi­lantropico, esoticheggiante, “etnico”, oltre che ovviamente an­ticoloniale, e poi mani tese ai disagi del Sud povero, ma, at­tenzione: in fondo non in modi di sentire e di fare sostanzialmente dissimili da quando il fardello dell’uomo bianco era la cristianizzazione e poi l’incivilimento dei barbari e dei selvaggi per mezzo delle varie forme di colonialismo. L’occidentale ritiene incoercibil­mente di avere ancor sempre principalmente da dare e da in­segnare, e ciò è sentito come la sua missione al mondo, anche se oggi la maggioranza degli occidentali colti sorride delle tre C sette‑ottocentesche che l’europeo aveva la missione di portare dappertutto nel mondo: Cristinesimo, Civiltà, Commer­cio. O, in una parola, il progresso. E questo allora era il me­glio, perché aveva forse maggior forza anche l’idea che il non‑europeo, il selvaggio, il primitivo, il colonizzato fosse incapace di raggiungere l’europeo in cima alla scala evoluti­va, idea proclamata a chiare lettere e praticata con la vio­lenza dai fascismi novecenteschi di ogni latitudine. I tipi relativamente nuovi di etnocentrismo o esclusivismo, o di franco razzismo biologizzante, ma oggi non tanto biologico bensì storico‑culturale, antirelativistico, antichi nel loro germe originario, sono costitu­tivi della cultura occidentale, del modo occidentale di essere e di sentirsi al mondo. Ogni occidentale, si direbbe, lo assorbe per im­pregnazione fin dalla più tenera età. E per tutti anche in Italia rimane ancora un’ov­vietà incontestata, la cui messa in causa provoca disagi spesso intollerabili. E’ questo, credo, il problema generale e più importante. Gli eccessi intolleranti e violenti non devono fare ignorare che essi sono solo un aspetto, certo il peggiore del modo occidentale di stare e di sentirsi oggi al mondo: ma forse il peggiore anche perché le violenze razziste servono a mascherare la loro origine, cioè a mascherare il più tranquillo e costitutivo senso di assoluta superiorità occidentale, tanto più sicuro di sé in quanto si pensa democratico, tollerante, soccorrevole e rispettoso dei diritti umani, anzi soprattutto per tutto questo bagaglio di valori irrinunciabili, che però certi occidentali spesso pensano, razzisticamente, loro proprii ed esclusivi, se non per destino biologico, come conseguenza storica e culturale che ci responsabilizza in quanto elaboratori e quindi custodi e divulgatori, magari in armi.

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