Dietro l’ombra
1 Ottobre 2008Antonio Mannu
Di Roger Ballen, figura tra le più interessanti e radicali della fotografia contemporanea, abbiamo scritto in occasione della recente mostra “Dietro l’Ombra”, presentata a “Su Palatu e sas Iscolas” di Villanova Monteleone. A metà settembre Ballen è stato in Sardegna dove, il 13 del mese, ha partecipato ad un incontro organizzato a Su Palatu. In quella circostanza c’é stata l’opportunità di una lunga conversazione con l’artista, sviluppatasi intorno alla sua opera. Ballen nasce a New York nel 1950: la madre lavora per la nota agenzia fotogiornalistica “Magnum Photos”, e il giovane Roger cresce a stretto contatto con il mondo del fotogiornalismo più attento e consapevole. Comincia a fotografare seriamente a 18 anni, documentando il movimento contro la guerra del Vietnam; é in quel periodo che si trasferisce a Berkeley, dove si laurea in psicologia. Visita poi il Sud Africa, lavora in quella terra come geologo e completa il dottorato nella materia. Nell’ 81 si trasferisce definitivamente nel paese. Viaggia molto e, poiché svolge la professione di geologo da indipendente, riesce a lavorare, in maniera intensa e sistematica, con la fotografia. Negli anni porta avanti una serie di progetti fotografici, l’ultimo dei quali, intitolato “Boarding House” (pensione) è attualmente in corso d’opera. I suoi lavori sono stati esposti in tutto il mondo: dal Museum of Modern Art di New York, al Victoria and Albert Musem di Londra, dal Centre Georges Pompidou di Parigi, allo Stedellijk Museum di Amsterdam. Ci incontriamo negli uffici di Su Palatu: Ballen, molto cordiale, chiede come preferiamo si svolga l’ incontro: vogliamo cominciare a parlare seduti dentro l’ufficio? Oppure ci aggrada maggiormente andare in una delle sale in cui sono esposte le fotografie e fare una sorta di visita guidata? Non é senza motivo che faccio presente quest’ atteggiamento, ma perché é significativo. “Non ho alcuna definita certezza” sembra ripetere Ballen durante la conversazione. Personalità densa e complessa, acuta e non pacificata, vola in alto e si inabissa nel profondo. E’ ancorato alla terra e alla natura. Dalle sue fotografie, con le sue fotografie, cerca incessantemente risposte che non arrivano. Dimentica, così almeno sostiene, gran parte delle domande che han dato vita alla ricerca. E’ soddisfatto quando non capisce. Una prima domanda verte sull’evoluzione del suo lavoro, caratterizzato, al principio e sino alla fine degli anni 90, da un’ aderenza alla tradizione della fotografia documentaria, mutato poi, in maniera sempre più radicale, verso forme “costruite”, in cui i soggetti, umani o animali, recitano insieme o per conto dell’autore, originando immagini in bilico tra scultura, fotografia, teatro, pittura e installazione. Sino alla produzione più recente, nella quale il distacco dagli esordi è ancor più netto. “Non è successo tutto in una notte, il lavoro è cambiato pian piano, tutto è accaduto molto lentamente.” risponde Ballen “I semi di quello che ho fatto di recente, e del mio nuovo progetto, sono stati piantati già nei primi anni 80. Allora non ero pronto, ero probabilmente influenzato da un certo intellettualismo, ma il mio sguardo era già laterale, cominciavo a vedere altre cose nelle immagini che realizzavo allora, o mentre le realizzavo, ad esempio i segni sul muro. Allora non ero concentrato sui segni, la priorità era lavorare, e lo è ancora. Ma poi, adagio adagio, è emerso il subconscio e, da un certo momento in poi, essenzialmente con il progetto Outland (1998-2001), è maturata una sempre maggiore forma di interazione con i soggetti delle mie fotografie. La forma si è fatta sempre più chiara e semplice, il significato sempre più complesso e ambiguo. Tutto in una mia fotografia è importante, ha un senso, anche se non sempre mi è chiaro. Tutto contribuisce al significato” E mentre parla indica, in un immagine del 2002 dal titolo “Orphan” (orfano), una sottile linea di matita tracciata su un muro ed una minuscola, quasi invisibile piuma, depositatasi, forse per caso?, sul bordo inferiore del fotogramma. “La fotografia non esisterebbe senza la linea e senza la piuma. Chi ha messo qui la piuma? Non lo so, chi lo sa? Ha forse importanza? Chi ha tracciato questa linea? Io? Il bambino? Chi ha fatto la fotografia? Non lo so e insisto: ha forse importanza?” Su un’altra immagine indica le grinze di un lenzuolo “Sono molto interessanti, fondamentali. Che cosa significano? Non lo so, o forse si, ma che rilievo può avere per te? Sei tu che devi capire, trovare il tuo senso.” Indica un’altra immagine, intitolata “Juxtaposed” (giustapposti), una fotografia del 2004 che fa parte dell’ultimo lavoro concluso: “Shadow Chamber” (camera d’ombra). Da due teli sovrapposti, macchiati e istoriati da semplici, infantili graffiti, spuntano una mano e un’ avambraccio; sulla mano è posata una bianchissima colomba. Dal bordo inferiore del telo a destra nell’immagine, spuntano due coppie di piedi. “Questa foto potrebbe appartenere al nuovo progetto. Ora gli animali prevalgono sulle persone. Non sono in grado di capire quale sia il significato degli animali, ma per me una buona fotografia è quella che non capisco, quella che capirò dopo molto tempo. Quando realizzo un’immagine che non riesco a comprendere allora sono sicuro di aver fatto un buon lavoro. Bisogna sempre cercare una nuova direzione, muoversi verso una zona nuova, sconosciuta. Questa è la cosa più difficile, la vera sfida: scoprire nuovi luoghi della propria mente.” Sulle motivazioni risponde: “Non faccio quello che faccio per te o per gli altri. Lo faccio per me. E non mi chiedo perché: lo faccio e basta. Non mi domando: “dovrei farlo?”. A volte lavoro anche se sono molto stanco. Arrivo da un lungo viaggio, vorrei riposare, non ho voglia, ma mi metto al lavoro. Lavoro tutti i giorni, dalle 12 alle 17 faccio fotografie. Sono molto disciplinato e molto organizzato nel mio lavoro. E’ un lavoro duro e difficile, ma io so perché cerco di registrare la mia storia. Un artista, in fin dei conti, non fa altro che documentare se stesso”.