Corrispondenze
1 Novembre 2011Marco Ligas
Le ultime vicende politiche (la lettera della Bce al governo italiano, la sua risposta, i sorrisi e i giudizi di alcuni capi di Stato) impongono alcune valutazioni.
La prima riguarda la natura delle scelte che sia l’Ue sia il governo italiano intendono fare e già praticano per contrastare la crisi economica. C’è davvero un conflitto o comunque una distanza tra le politiche delle due istituzioni? Credo di no: certo, il nostro governo e il suo presidente sono giustamente ritenuti inaffidabili quando presentano i programmi di risanamento del debito, non foss’altro perché nel corso di questi anni, a parte le leggi ad personam, non hanno fatto alcunché per contenere gli effetti della crisi. Ma se interpretiamo attentamente le dichiarazioni di intenti sia del governo sia della Bce non è difficile cogliere delle corrispondenze. La svendita delle patrimonio pubblico, i licenziamenti liberi, la riforma delle pensioni sono obiettivi comuni; le differenze si riscontrano solo nell’insistenza e nella determinazione con cui l’Ue chiede al nostro paese la realizzazione delle riforme. Il risanamento del debito è certamente un obiettivo a cui l’Europa tiene particolarmente ma non per una questione legata a principi di moralità. Nelle sollecitazioni ripetute del duo Merkel-Sarkozy ci sono motivazioni assai più interessate, dipendenti dalla necessità di tutelare i propri sistemi bancari messi fortemente in pericolo dal possibile default greco. Per queste ragioni e non per altro la lettera, piuttosto vaga, inviata a Bruxelles dal nostro governo è stata accolta favorevolmente, seppure con le dovute perplessità; un giudizio negativo avrebbe fatto precipitare la crisi.
Un’altra valutazione va fatta sulla coerenza delle nostre formazioni politiche. Se i programmi di risanamento previsti dall’Ue e dal governo Berlusconi, almeno quelli enunciati, sono analoghi, perché una componente dell’opposizione, anche del Pd, critica il governo e al tempo stesso considera accettabili le proposte che la Bce ha presentato e vorrebbe imporre al nostro paese?
Da questa contraddizione emerge innanzitutto la rinuncia al principio della sovranità nazionale.
Sebbene negli ultimi decenni le relazioni tra paesi siano diventate più intense e siano venute meno quelle rigidità che condizionavano gli scambi economici politici e culturali, rimangono inaccettabili le ingerenza nelle politiche degli Stati sovrani. Se l’Italia ha un debito nei confronti di altri paesi o di istituzioni finanziarie internazionali è del tutto legittimo che venga richiamata a restituire quanto deve, ciò che non è consentito è che il richiamo sia accompagnato dall’imposizione delle misure da attuare per la restituzione del debito.
La Bce diventa arrogante se vuole imporre l’innalzamento dell’età pensionabile o i licenziamenti liberi: il nostro sistema previdenziale è in equilibrio perché le entrate contributive superano le prestazioni pensionistiche. La sua pretesa è dunque non solo inopportuna ma anche sbagliata.
Gli stessi rapporti di lavoro non possono essere decisi da chi dirige il sistema bancario; la storia del nostro paese ci ricorda che non c’è posto per l’annullamento dei diritti e delle tutele e non sarà facile per nessuno percorrere questa strada. Queste regole fondamentali dovrebbero appartenere al patrimonio culturale e politico di quei partiti che intendono sostituire l’attuale governo nella guida del paese. Non si può chiedere con credibilità ai lavoratori, ai movimenti che sono cresciuti in questi anni e hanno condotto battaglie importanti in difesa della democrazia e dei diritti una delega per poi governare accettando i presupposti di un’organizzazione sociale fondata sui principi del neoliberismo.
Non si possono chiedere queste cose soprattutto se peggiorano di giorno in giorno le condizioni di vita di milioni di persone. Certo, non è facile contrastare le regole del neoliberismo che si è affermato prepotentemente come pensiero unico; tanto più che gli artefici di questo mutamento tendono a realizzare un ordine naturale dove il mercato sia l’unico regolatore di tutti i processi e nessuno Stato o governo possano intervenire a turbarne gli equilibri.
Ma chi si oppone a questo ordine sociale farebbe bene a non considerare la crescita del Pil o dei consumi l’obiettivo fondamentale del progresso. Pil e consumi non sono più in grado di crescere perché manca il lavoro e le merci non trovano più mercati ricettivi nonostante le ingenti risorse investite per la promozione delle vendite. Se il debito e soprattutto gli interessi del debito crescono a ritmi esponenziali è opportuno interrompere questa spirale programmando le modalità della restituzione e comunque rifiutando il pagamento degli interessi da usurai imposti dalle banche con le complicità dei governi forti dell’occidente.
Ci sono altre strade per il risanamento; lo abbiamo detto più volte ed è opportuno ripeterlo ancora: l’applicazione di una patrimoniale, il pagamento totale delle imposte di chi ha beneficiato dello scudo fiscale, la riduzione delle spese militari, l’abolizione dei fondi alle scuole private e del buono scuola, la riduzione dei costi della politica. Queste misure non solo ridurrebbero il nostro debito ma consentirebbero al tempo stesso un sostegno alle produzioni ed ai consumi della green economy, dalle energie rinnovabili alle produzioni a impatto ambientale zero; insomma una messa in discussione del pensiero unico e una possibilità di ripresa anche per la Sardegna fortemente penalizzata dall’insularità e dalle politiche saccheggiatrici di governi e imprese.