Lettera di dimissioni
16 Novembre 2011Costantino Cossu
Lasciare, andar via, farla finita. Perché a restare si paga un prezzo troppo alto. Il prezzo della distruzione della propria identità. E proprio non è più possibile. Il mondo è pieno di gente che sta in gabbia e non può aprire le porte. Non ce la fa. Non ha la forza, il coraggio. Ci riesce invece Clelia, la protagonista del nuovo romanzo di Valeria Parrella, “Lettera di dimissioni” (Einaudi, 187 pagine, 18,50 euro). Che è un libro necessario, perché dice della generale resa, etica prima ancora che politica, alla quale ci si è abbandonati in Italia. Un fallimento che coinvolge tre generazioni.
E infatti il racconto comincia nel 1914, quando la nonna materna di Clelia, Franca Cechov, arriva a Napoli dalla Russia. E’ una ragazzina, figlia di un ussaro morto nella grande guerra, per la quale l’uomo parte poco prima che la bimba con la madre si trasferiscano in Italia. Franca sposa Giacomo, uno stampatore. Vita modesta e due figlie femmine. Dei nonni paterni, invece, Riccardo fa il professore di latino al liceo, Margherita insegna matematica. Di questi vecchi Clelia, spesso affidata loro dai genitori che lavorano, fa esperienza in un’Italia anni Settanta che ha bruciato tutte le illusioni prima del “miracolo economico” e poi del “riformismo” senza riforme che segna, a partire dal 1963, la stagione dei governi di centro sinistra. Interni piccolo borghesi fanno da sfondo ai primi anni di vita di Clelia. E’ la Napoli ormai irreparabilmente devastata dal saccheggio della speculazione edilizia: “Dal quarto piano di quel palazzo [quello dei nonni materni, ndr.] , che a sua volta era nato sulle spalle di un altro palazzo e che quindi calava veramente dall’alto su una teoria di altri palazzi senza potervi distinguere strade, né divisioni, né androni, né marciapiedi, né interruzioni, ma solo a inseguirsi antenne e terrazzi di copertura e balconcini mille, io volavo sulla città. Facevo così: mi sedevo sulle mattonelle calde del balcone, dopo che il sole era finito dietro il suo orizzonte di cemento, allungavo le gambe giù dalla ringhiera e pensavo di volare”. La piccola Clelia vive circondata dai detriti esistenziali che la storia del Novecento ha depositato nelle case dei nonni. Si addensa, nella luce opaca dei ricordi d’infanzia, la materia volatile di vite subite, agite da norme rispettate sempre, senza mai avanzare un perché. E’ la vasta zona grigia che ha avvolto le tragedie del secolo. In questo limbo di disarmata vecchiezza Clelia, come tutti i bambini, cataloga e aspetta: “Quello che restava a me era questa impressione: che la vita stava tutta fuori di me, era nel passato, nel futuro, nelle cose. Nelle parole. Nei gesti degli altri. Che mi si concedeva per brandelli e che quei pezzi non erano gli stessi che riuscivo a catalogare e nominare con il sussidiario. Quella fetente stava da un’altra parte. Mi aspettava dietro gli angoli come i gatti all’agguato. E io prima o poi le sarei andata incontro”.
Uno scarto segna, o vorrebbe segnare, il progetto di vita dei genitori di Clelia, Claudio e Marta, come per ogni generazione che si affaccia nuova al mondo. Gli anni Sessanta della contestazione studentesca sono il loro tempo di formazione. Poi lui, architetto, vince un concorso pubblico e viene assunto nell’ufficio tecnico del Comune di Pompei; lei, laureata in Biologia, diventa responsabile dell’aquario comunale a Napoli. Hanno casa a Pompei, fuori della città invivibile. Sono comunisti del Pci. Ma poi il partito si squaglia. Resta il bassolinismo. Clelia tenta di scartare. Anche lei come a loro tempo i genitori. Frequenta un centro sociale, dove si innamora di Gianni, con il quale va a vivere in un quartiere popolare di Napoli. Si mantiene agli studi (facoltà di Filosofia) facendo la maschera al San Carlo. Il teatro segnerà il suo destino. Scrive un testo che vince un concorso nazionale, va a lavorare a Milano, lascia Gianni per Stefano, impresario teatrale di successo, e i centri sociali per la direzione del Teatro regionale della Campania. Crede di poter fare cultura e invece si accorge che le è stato assegnato un ruolo neanche centrale, del tutto subalterno, dentro il sistema di potere che governa la Napoli amministrata da giunte “progressiste”. Arriva il momento che le chiedono di togliersi di mezzo: un nuovo giro di nomine pretende altre scelte. E Clelia scrive la sua lettera di dimissioni: il romanzo della sua vita e delle due generazioni che l’hanno preceduta, accomunate da un fallimento che, misurato nei tempi lunghi, ha il segno di una sconfitta storica. E’ il fallimento di un progetto di emancipazione, di costruzione di un ordine nuovo nei rapporti tra gli esseri umani, di un grado più elevato di civiltà. E’ il fallimento del progetto comunista, di cui alla fine non resta niente. Tutto cancellato dagli egoismi, dai carrierismi, da meschini calcoli di potere individuale o di cordata. La resa della sinistra e di molti che pure continuano a dirsi comunisti conta, in questo fallimento, almeno quanto la forza dell’avversario politico.
Per sfuggire alla disperazione, Clelia racconta. Lo aveva intuito da bambina, ora lo sa: la vita, “quella fetente, sta sempre da un’altra parte” rispetto a dove andiamo a cercarla. Smettere di cercarla, però, non si può: sarebbe cedere al vuoto, alla morte. Per non smettere di cercare la vita Clelia si affida alla parola che narra.