Torrai a domu, piccioccus
16 Gennaio 2012Alfonso Stiglitz
Il caso del futuro delle statue di Monti Prama, della loro destinazione decisa con una spartizione dei pezzi tra Cagliari, Cabras e Sassari, messo in chiaro da Marcello Madau su queste pagine (qua i links: Guerrieri con l’Arcus, 16 dicembre 2011, e La spartizione delle statue nuragiche, 31 dicembre 2011), con lo sconcerto scientifico che ha creato e nella opposizione montante tra l’opinione pubblica, è pretesto significativo per avviare una discussione sui temi della tutela e della valorizzazione.
Temi troppo spesso schiacciati nel continuo conflitto tra due posizioni contrapposte ma convergenti: statalismo e localismo. Due facce di un modo di intendere i beni culturali, frutto di elaborazioni tardo ottocentesche e novecentesche che si sono trascinate nel tempo, producendo da una parte eccellenze dall’altra disastri; Nel venir meno di quel mondo che ha prodotto quei modelli, la loro sopravvivenza, come sempre accade, perde i vantaggi degli aspetti positivi per esaltare quelli negativi, ormai incancrenitisi. Nel caso specifico il lodevole tentativo che in questi anni è stato portato avanti da una parte dagli organi statali e dall’altra dall’Amministrazione di Cabras, al netto delle polemiche e delle urla aggressive di qualcuno, ha prodotto un compromesso al ribasso, incapace di una soluzione.
Il richiamo di Marcello Madau ai Beni Culturali come Beni Comuni è la direzione corretta che se seguita mette, però, in completa discussione l’impianto attuale centralistico della tutela e della valorizzazione. I Beni comuni, infatti, non appartengono allo Stato, né alla Regione, né al Comune, sono proprietà della collettività che ne è l’unica titolare. Stato, Regione e Comune sono i gestori per conto, in nome di e negli interessi della collettività, che deve essere chiamata a esprimersi. E sono beni intangibili. L’esempio classico dei Buddha di Bamiyan ci dice che l’affermazione “questa è casa mia, quindi decido io (Stato, Regione, Comune) che i Buddha debbono e possono essere distrutti o che le statue vengano spartite”, ci dà la distanza tra la visione centralista/localista e il concetto di Bene Comune.
E in questo senso l’aspetto debole della campagna di opinione per riportare le statue (e i modelli di nuraghe, i betili e il resto) a Cabras sta proprio nella motivazione della richiesta: sono mie quindi decido io; ed è debole anche perché quell’Ente non ha, nei decenni scorsi, fatto alcuna azione concreta per accoglierle o per restituire alla collettività l’area archeologica.
In realtà le statue devono andare a Cabras perché è casa loro, perché le ha prodotte una comunità che viveva in quel luogo e che non è l’attuale Comune di Cabras, o i suoi amministratori. Essi gestiscono o gestiranno un bene che appartiene a quella comunità di allora, che oggi non può più esprimersi. Le statue devono tornare lì anche per una forte motivazione scientifica, alla quale anche lo Stato dovrebbe inchinarsi, che è quella della intangibilità del complesso (devono essere esposte tutte assieme) e l’inscindibilità dei reperti dal loro contesto geografico, pena l’incapacità di comprenderlo, per i cittadini ma anche per gli studiosi. Affermare questo significa mettere in discussione, in altre parole, il modello di Museo nazionale, frutto della mentalità del secondo millennio e non più in grado di svolgere alcun ruolo nella nuova era. Dicevo che il caso delle statue nuragiche può essere la pietra di base per avviare un dibattito, di cui il Manifesto sardo potrebbe farsi promotore forte della capacità che ha e che ha avuto in questi anni di tornare su questi temi con tante voci.
Prendo lo spunto da un intervento dello storico dell’arte Tomaso Montanari sul Fatto quotidiano del 5 gennaio scorso sul tema del che fare con le Soprintendenze e, direi io, sul tema della tutela e della valorizzazione così come è oggi concepita, nel quale propone cinque obiettivi: l’assoluta indipendenza delle soprintendenze dal potere politico, centrale e locale; la massima autorevolezza scientifica, culturale e morale dei soprintendenti; la massima capillarità territoriale possibile del sistema di tutela; un serio, fitto ricambio dei ranghi tecnici (storici dell’arte e archeologi), basato esclusivamente sul merito; l’agganciamento degli stipendi dei funzionari almeno agli standards universitari.
Sono temi utili a creare una scaletta di dibattito, obiettivi pienamente condivisibili, ovviamente, ma che hanno il difetto di muoversi nell’attuale quadro della tutela senza metterlo in discussione. Li definirei, quindi, obiettivi di primo livello, di attesa, di pungolo per una riforma che metta mano a un ordinamento di tipo novecentesco (ma con origini nel secolo precedente) che trova la piena estrinsecazione con la prima meritevole legge generale di tutela del 1909, sostituita poi da un’altra meritevole legge, la 1089 del 1939, che ben ha funzionato sebbene sia figlia del ventennio fascista. Il sistema verticistico statalista che ancora oggi caratterizza la tutela e condiziona la valorizzazione è frutto di altra epoca, quindi, con mentalità ed esigenze diverse dalle nostre. La crisi attuale delle soprintendenze e dell’intero sistema di tutela nasce da qui, dall’essere giunto a capolinea.
Le proposte di Montanari hanno il vantaggio di puntellare un sistema, il cui lento crollo sta creando disastri, ma non di risolverlo. Allo stesso tempo la controversia stato/autonomie (o indipendenza) non porta alla risoluzione del problema, ma semplicemente alla riproposizione dello stesso schema, magari ad ambiti territoriali più limitati. Ne è un esempio ormai assodato il caso siciliano, testato in un sessantennio, dove lo Stato, al momento dell’approvazione dello Statuto speciale della Regione Siciliana, si spogliò della competenza nel campo dei beni culturali che passarono alla Regione; cosa che non riuscì alla Sardegna grazie al nostro Statuto fallimentare.
Al di là della capacità dei colleghi e della difficoltà di lavorare per la tutela in una regione complessa, resta il fallimento di quell’esempio nel quale l’elemento caratterizzante è la totale dipendenza della tutela dalla politica. In altre parole è il modello che è ormai obsoleto, sia che resti a livello statale o che passi a livello regionale. L’idea sulla quale riflettere, e su cui ritornerò in altri articoli avendo esaurito lo spazio per questa volta, è di pensare a qualcosa di diverso, che separi la tutela dalla politica, certamente, ma che rimetta in discussione anche il suo rapporto col territorio, con la valorizzazione (non si può tutelare solo ciò che è valorizzabile), con la ricerca scientifica. In altre parole non più soprintendenze come prefetture d’altri tempi, braccio armato dello Stato tra i briganti. E alle statue dico, torrai a domu piccioccus.
23 Gennaio 2012 alle 15:01
Condivido la tua coraggiosa opinione che ritengo semplicemente illuminante. Credo non sia facile uscire dai soliti schematismi , fino ad oggi sostenuti dai burocrati delle soprintendenze e vere palle al piede di una moderna tutela e visibilità dei nostri beni culturali storici e paesaggistici. Quindi dico veramente bravo!
toni