Sono possibili le riconversioni?
31 Gennaio 2012Mariano Carboni
Spesso, essendo impegnato nel lavoro sindacale, mi vengono poste queste domande: 1) è opportuno insistere nella salvaguardia di questo modello produttivo ed industriale, oppure per la Sardegna si deve ricercare una via di sviluppo alternativa? 2) il sindacato confederale e la stessa Fiom, possono fare cose diverse della semplice tutela di singole realtà produttive?
Provo a rispondere con alcuni esempi concreti. Ogni volta che abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con opportunità lavorative alternative abbiamo accettato la sfida e dato un contributo propositivo. Basti pensare a quello che sta avvenendo, in questi mesi, negli impianti chimici di Porto Torres. Si è presentata la possibilità di convertire le attività della chimica di base, con attività legate alla chimica verde, ed il sindacato confederale, nel suo complesso, si è adoperato per rendere concreta quest’opportunità. Sono state utilizzate tutte le argomentazioni in nostro possesso per spiegare ai lavoratori che la cassa integrazione, che porta con sé un notevole carico di sacrifici, doveva essere utilizzata, a fin di bene, per un periodo di transizione, con la finalità della salvaguardia del lavoro e della ricollocazione di tutto il personale impiegato.
Abbiamo agito con grande senso di responsabilità, mettendo nel conto la gestione di un periodo non breve di difficoltà e di sacrifici, avendo la consapevolezza che i nuovi impianti richiedono tempi medio lunghi prima dell’entrata a regime. E’ stato previsto un periodo di transizione che può variare da un minimo di 2 ad un massimo di 7 anni. Ho voluto parlare di questa vicenda perché penso sia un esempio positivo il tentativo di riconversione industriale, accompagnato dall’assunzione di responsabilità del sindacato confederale e della Fiom. Capita però, di doverti, molto spesso, confrontare con esempi meno positivi. Pensate a quello che è avvenuto nel nuorese ed alle attività legate al settore tessile ed alla Legler. In quel settore operavano migliaia di persone che hanno subito la cassa integrazione e che sono state successivamente licenziate. Si è fatta tantissima filosofia ipotizzando opportunità di sviluppo alternative. Ebbene, il polo tessile è ormai chiuso da più anni ed io mi chiedo che fine abbiano fatto quelle promesse? Perché non si sviluppano quei settori legati al turismo interno, all’enogastronomia, alla nostra identità? Non so se esiste una risposta legata a dei tempi di transizione, per il momento sono costretto a prendere atto del vuoto assoluto, dell’impoverimento del tessuto sociale e della contrazione del PIL provinciale.
Poi non ci si deve meravigliare della reazione furiosa dei lavoratori del Sulcis Iglesiente che difendono con le unghie e con i denti le attività lavorative legate alla produzione dell’alluminio. Costoro sanno benissimo che si tratta di produzioni inquinanti, che rendono poco salubre l’ambiente circostante e che possono contrarre delle malattie. Vorrebbero una condizione diversa per sé e per i figli! Ma in alternativa, la classe politica regionale che tipo di attività intende sviluppare? In quale settore si pensa di impiegare quelle migliaia di lavoratori dipendenti?
Nonostante i miei sforzi non riesco a trovare risposte credibili alle domande che ho appena posto. Ecco perché non mi meraviglia la reazione scomposta, talvolta scoordinata, di centinaia di persone che temono il futuro e che hanno deciso di partecipare ai blocchi stradali. E poi, io non credo che per la Sardegna possano valere regole diverse rispetto al resto del paese. Le zone più ricche d’Italia hanno un sistema economico integrato, con la presenza del settore primario, del settore secondario, del settore terziario e del terziario avanzato. E’ un dato di fatto!
Per questo dobbiamo difendere, naturalmente senza prescindere dalla compatibilità ambientale, il pezzo di insediamento industriale presente in Sardegna. Infine, ai sostenitori del turismo a tutti i costi vorrei dire che l’idea di taluni di cementificare le coste e di chiudere le spiagge non è meno ingombrante di tante industrie isolane. Non credo che lo sviluppo regionale possa essere affidato alla realizzazione delle seconde case marine. Personalmente provo una certa sofferenza quando vado al mare nella costa di Pula e di Domus De Maria e non posso godermi quel tratto di spiaggia a causa del Forte Village e delle innumerevoli villette riservate ai pochi fortunati. Non credo che ci siano tantissimi sardi che possono permettersi affitti, talvolta in nero, a quasi 1.000 euro alla settimana.
Cosa ne pensate?