Memorie di periferia
31 Gennaio 2012Alfonso Stglitz
Lo scambio di vedute tra Valentina Pisanty e Furio Colombo sul tema della Giorno della Memoria – avvenuto nel giornale Il Fatto quotidiano del 24 gennaio 2012 in riferimento alla recensione che Colombo fa del suo libro – mi dà l’occasione, come ogni anno, di riflettere sul tema partendo da una particolare ottica, quella di un piccolo paese sardo. Il tema della discussione, che troviamo anche nell’intervento di Claudio Natoli sulla nostra rivista, è il pericolo che il Giorno della Memoria si trasformi in celebrazione, in memoria di qualcosa di brutto ma ormai passato, in un dovere istituzionale. Il rischio è reale e in certi casi avviene proprio così; d’altra parte la cronaca ci fornisce degli appigli per renderci conto che non si tratta di fenomeni passati, ma pienamente attivi nella nostra società, dall’assassinio razzista di Firenze al convegno negazionista di Como; o, ancora, nei mass media a più ampia diffusione, come mostra il titolo, idiota, dell’articolo del Giornale del 27 gennaio, a proposito di celebrazioni: “A noi Schettino, a voi Auschwitz”, nel quale la Memoria diventa una clava contro un popolo.
Condivido le perplessità di Valentina Pisanty su una giornata dedicata alla memoria e non alla storia, senza per questo sminuire l’importanza della legge istitutiva e la volontà di Furio Colombo.
E le condivido raccontando cosa avviene in periferia con la memoria e con quel particolare tipo di memoria, cercando di mostrare come la celebrazione, quando è unita alla ricerca storica, sia riuscita in questi anni a cambiare il panorama sardo.
A San Vero Milis, il piccolo paese di cui voglio parlare, si è giunti alla XIII edizione della Giornata della Memoria; non c’è un errore di numerazione, è la tredicesima perché la biblioteca del paese iniziò a proporre una riflessione sul tema a gennaio del 2000, alcuni mesi prima dell’approvazione della legge. L’esigenza nasceva dal silenzio assordante rispetto a temi, quelli del razzismo e delle sue conseguenze, che iniziavano a emergere, timidamente, anche da noi. Da allora, per tredici edizioni, la Giornata è andata allargandosi partendo dalla Memoria propriamente detta, intesa come momento di riflessione collettiva, attraverso una mostra e la proiezione di alcuni film per le scuole, per arrivare alla Storia, con un binomio che è diventato indissolubile.
Quest’anno sono state proposte due mostre affiancate, una realizzata dai ragazzi della Scuola media Alfieri di Cagliari, con la rielaborazione di immagini della deportazione e dei campi e l’altra, sotto forma di un treno di carta, realizzata dai loro colleghi della Scuola media di San Vero Milis; mercoledì primo febbraio avverrà l’incontro tra le due scuole, al quale parteciperanno anche i ragazzi della Scuola media di Cabras che presenteranno un loro lavoro. Una memoria, quindi, non legata ai reduci, agli adulti, ma affidata ai giovani e da loro ricreata.
Negli anni passati sono stati proposti temi diversi: ebrei, rom, omosessuali, politici; a ciascuno di essi si è affiancato il primo filone della nostra ricerca storica, dedicato al ruolo della Sardegna, al quale anche altri piccoli paesi si sono deicati. Ruolo negativo da una parte, vista l’attiva partecipazione alla formazione e applicazione delle leggi razziali da parte del sardo Lino Businco e la destinazione alle miniere di Carbonia degli omosessuali o la presenza di un campo per rom a Perdasdefogu. Negativa, ma in senso opposto, per la riscoperta di tanti nostri conterranei deportati, fino a questo momento praticamente ignoti agli stessi compaesani, tanto che ancora è lontano il completamento degli elenchi. A San Vero, ad esempio, è avvenuta la riscoperta di un personaggio straordinario, Cosimo Orrù, magistrato, antifascista, deportato e morto nel campo di Litoměřice; figura praticamente ignota in paese, se non per la dedica di una via; in questo caso lo stimolo della Giornata della Memoria ha portato ad attivare un’approfondita ricerca storica negli archivi, ancora in corso, che ne ha ricostruito il percorso nei campi di sterminio: una memoria, quindi, non semplicemente celebrativa. L’attività svolta ha portato a realizzare il “centro di documentazione della memoria Cosimo Orrù”, localizzato nella Biblioteca comunale che ha oggi una delle più ampie raccolte di libri sull’argomento e una discreta filmografia, ma che svolge, parallelamente, attività di ricerca storica, da una parte, appunto sulla figura di Cosimo Orrù, dall’altra sul tema del razzismo e della sua presenza nella ricerca storica con particolare riferimento alle indagini sulla Sardegna antica; ricerca non limitata agli studi d’epoca (anni trenta o giù di lì) ma anche alla presenza più paludata in percorsi disciplinari attuali (archeologici e genetici).
Tutto questo per dire che nelle celebrazioni di periferia, basta scorrere i giornali sardi di questi giorni e i corrispondenti degli anni passati, memoria e storia sono andate di pari passo, con la riscoperta di figure lontane nel tempo e scomparse dai ricordi, ma parte integrante di quelle piccole realtà che oggi sentono meno estraneo il tema delle deportazioni e dei massacri, cancellati dalla memoria sarda, come troppo spesso avviene.
Esiste una lapide per ricordare i morti massacrati dalle legioni romane, ne mancano ancora troppe per ricordare i deportati sardi del XX secolo.
PS Il libro di Valentina Pisanty è Abusi di memoria, negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori 2012.
4 Febbraio 2012 alle 12:30
Gentile dr Stiglitz,
premessa l’ammirazione per l’iniziativa, Le sottopongo una brevissima riflessione.
Mio padre, classe 1915, quando gli chiedevo lumi sulle leggi razziali, mi rispondeva: eravamo tutti razzisti, perché il concetto di razza era scontato. Oggi non lo è più, la genetica ne ha fatto piazza pulita, però si dà per scontato il concetto di ‘identità’. In Sardegna ci sono i sardi (e si discute di problema identitario) a Milano ci sono i padani. Come dire che la razza esce dalla porta (della scienza) e rientra dalla finestra (del sentire comune) cambiando nome: il razzismo non è una questione che si discute con la genetica.
In Sardegna (più che in altri luoghi) abbiamo il problema dell’identità, ma nessuno ne parla se non dando per acquisito che essa esista e sia corretto difenderla. Mi permetto di segnalarlo come si fa normalmente con le curve pericolose: non sono sempre mortali ma c’è il pericolo di uscire di strada.
Poiché Lei segnala spesso buone letture, mi cimento anch’io: A. Maalouf, L’identità, Bompiani, Milano 2005.
11 Febbraio 2012 alle 13:42
Gentile Ainis
Mi fa piacere che abbia citato uno dei miei scrittori preferiti, Amin Maalouf; ed è proprio con una sua immagine che provo a spiegarle cos’è per me l’identità. Cercando le origini della sua famiglia e della sua identità usa l’immagine di una strada: “le strade non spuntano dal suolo a caso, dove germoglia il seme. Come noi, hanno un’origine. Un’origine illusoria, perché le strade non hanno mai un punto di partenza reale. Prima di quella curva ce n’era già un’altra; e prima di questa un’altra ancora. L’otrigine diventa irreperibile, giacché a ogni incrocio si incontrano altre strade che hanno altre origini” (A. Maalouf, Origini, Bompiani 2004). Ecco, per me l’identità sarda è una lunga strada fatta di infiniti incroci.
12 Febbraio 2012 alle 02:02
scrivo per il piacere di dialogare “in Sardegna”, padre sardo e mamma veneziana sono nata in Sardegna, rimasta fino a 3 anni, abbastanza per sentirmi sarda, ora non solo identità sarda, il mio vissuto ha scolpito l’animo, i gesti, le espressioni, ho un’identità colorata. La Sardegna è il punto di partenza, quel profilo delle montagne, gesti essenziali, parole d’uso..
“Appartenenza/Differenza”
“Appartenenza” è un luogo
da cui partire, di protezione, gruppo.
“Io, La Famiglia
Il mio Pensiero, la mia Città, il mio Partito”,
radici di un sentire, cari linguaggi .
La vita dentro pulsa, mette tutti in cammino.
Fermarsi, appartenere solo…è un po’ morire.
Appartenenza… è solo una partenza,
la méta vera si chiama Vita… Differenza.
“Uguali e Differenti”…
di abilità, di genere, di cultura
L’indicazione è al bivio:
“Bene Comune” “Incontro” ed anche “Vicinanza”.
Omologarci? Riconosciamoci invece…
Creiamo dialogo, ponti.
Urgono slarghi, piazze, centri diurni, asili per stranieri…
persone al centro. Progetti di gran cuore.
Luoghi interiori, culle per molti incontri,
per riciclar risorse, scambiare preziosi saperi,
per riconoscerci amici.
Leda Cossu
Viviamo tempi di grandi cambiamenti, sperimentiamo il bisogno di appartenenza, sicurezza, l’identità è un valore…. uno spazio di confine fra noi e gli altri… da rendere vitale ogni giorno anziché con la difesa e il conflitto con l’apertura, il dialogo, l’incontro, una convivenza non solo civile, anche amorevol
14 Febbraio 2012 alle 10:44
Gentile dr Stigliz,
ringraziandola per l’attenzione, mi permetto di farle notare la circolarità logica del Suo ragionamento. Se l’”identità sarda” è il risultato di una commistione di tante identità (mi permetta di riassumere così la metafora della strada) si danno due casi: o è possibile definire compiutamente le altre identità (cosa che contesto a meno di smentita, poiché ogni identità è meticcia) oppure no. Propendo per il secondo, da cui deriva come l’identità sia individuale, non collettiva, come per l’appunto conclude Maalouf.
Il pericolo che segnalavo nel mio primo commento risiede nel tentativo (spesso strumentale) di definire invece un’identità collettiva (sarda o padana, il concetto è il medesimo: si arriva comunque, un’identità dopo l’altra, ad un’infinita catena di identità meticce) da cui il necessario ricorso allo stereotipo (i sardi sono quelli che violentano le donne, come dice un giudice tedesco?).
In altre parole, mi pare di scorgere l’impossibilità di definire l’identità collettiva senza cadere in un riferimento circolare o, questo è davvero il pericolo, negli stereotipi. Insomma, in definitiva, colgo nell’identità un possibile succedaneo della razza e ciò preoccupa.