Sardismo e dintorni
1 Febbraio 2009
Mario Cubeddu
C’è qualcosa nella sensibilità storica e culturale dei sardi capace di suggerire che la categoria adatta a definire il comportamento del Partito Sardo d’Azione approdato alla corte di Berlusconi non sia politica, ma etica e psicologica: quella del tradimento. Nel senso evangelico: consegnare al nemico e a morte certa i propri ideali in cambio di trenta denari. Il tradimento praticato dai dirigenti del partito finisce per attirare transfughi di ogni sorta e compagni di strada che vantano la stessa purezza “nazionalista”. Come per tanti popoli oppressi, il concetto e la sua pratica hanno una lunga storia. Pochi sanno che “traitore”, traditore, è uno dei primi vocaboli sardi attestati nei documenti volgari, scritto in caratteri greci nella Carta di Marsiglia. Mille anni dopo sembra ripetersi qualcosa di simile. Chi pensa, o spera, che l’adesione dei sardisti alla coalizione di centro-destra rappresenti, per la sua assurdità, la fine di un’esperienza politica, molto probabilmente si illude. Il marchio dei 4 mori e l’azienda che esso rappresenta, anche se disastrati, continueranno a vivere e a rimanere di proprietà del signor Giacomo Sanna di Sassari. Perché a questo è ridotto il partito nato a Oristano nella primavera del 1921 dal movimento dei combattenti: un simbolo, e una struttura evanescente ma sotto stretto controllo. Idee e programmi di cui tanto ci si vanta sono buoni per la vetrina, mentre la sostanza è tutt’altra. A partire dalla nuova forma di dipendenza che si prospetta per l’isola. Berlusconi che parla della “nostra Sardegna” si vanta chiaramente di considerarla già conquistata e fatta sua. Che senso ha quindi qualsiasi vaniloquio su autonomia o indipendentismo sardisti? Berlusconi è venuto in Sardegna per speculare sui terreni costruendo case lungo le coste. A lui il guadagno della speculazione edilizia, ai sardi e ai gonzi che gli credono lo sviluppo della macchia mediterranea e dei lavori di servitù e giardinaggio. Aveva ragione John Day a parlare della Sardegna come di un laboratorio di storia coloniale. Dopo la Sardegna delle varie dominazioni, con la vittoria della destra si aprirebbe una nuova fase, quella della Sardegna berlusconiana. Perché l’uomo morirà, ma la dinastia minaccia di dominare per mezzo del suo impero mediatico ancora per decenni i destini dell’Italia. La Sardegna sarà uno sfondo per le vacanze di uomini come lui, verde di macchia mediterranea e punteggiato di antichi e pittoreschi nuraghe/magazzini. E i vasti spazi della Sardegna interna, abitati da sardi che svaniscono nel passato come una fila di cavalieri indiani, vanno bene per basi militari e poligoni di tiro. Se è ben chiaro l’esito di scelte sbagliate, risulta più complesso capirne le cause. E’ probabile che pochi ricordino ancora il vento sardista degli anni Ottanta. La società e la cultura della Sardegna attuale sarebbero incomprensibili senza quel movimento politico e il suo patrimonio di idee e rivendicazioni, tanto vitali quanto spesso confuse e contraddittorie. L’elemento che mobilitò in quegli anni le menti e i cuori di migliaia di sardi fu il constatare che la propria identità di popolo e di individui, costruita nei secoli attraverso la storia, la lingua, le tradizioni, era destinata a svanire nell’indifferenza, sostituita dai miti consumistici dell’Italia peggiore. Chi voglia comprendere le radici di quella sensibilità potrà leggere le opere di Benvenuto Lobina, Francesco Masala e Sergio Atzeni che negli stessi anni ponevano le fondamenta di una letteratura sarda moderna. Contemporaneamente è nato e si è consolidato il disamore dei sardisti nei confronti della sinistra, rendendo possibile la folle scelta di oggi da parte di un partito che si considerava appartenente alla stessa area. Tutto si è consumato durante gli anni in cui l’isola è stata governata dalla giunta presieduta dal leader sardista Mario Melis. Di essa facevano parte i socialisti e i comunisti; questi ultimi grazie al successo sardista arrivavano per la prima volta al potere. Il discorso sardista anticipava la riscoperta della tradizione federalista italiana proponendo una revisione dello Statuto e il rafforzamento dell’autonomia della Regione Sarda. In primo piano vi era inoltre la soluzione di problemi incancreniti come il nodo doloroso e umiliante dei trasporti, a partire dalla questione Tirrenia, e quello delle onnipresenti servitù militari. Il PCI cominciava in quegli anni a tirar fuori la testa a fatica dal suo passato centralista. La base sardista vedeva le mitologie italiane proposte come progressiste, mentre le proprie erano bollate come reazionarie. A stento si tollerava il discorso federalista di Mario Melis, mentre si considerava inaccettabile qualsiasi ipotesi di lotta anticoloniale e di liberazione dalla dipendenza applicato alla Sardegna. L’oltraggio definitivo lamentato dai sardisti, venuto dopo una serie lunga di incomprensioni, fu costituito dal rifiuto dei compagni di sinistra di approvare una legge di tutela della lingua e della cultura della Sardegna. La base sardista si sentì tradita. Per quale ragione si oppose resistenza a un provvedimento che sarebbe passato senza discussioni pochi anni più tardi? Col primo governo presieduto da un ex comunista, Massimo D’Alema, sarebbe arrivato addirittura il riconoscimento del sardo come lingua degna di essere tutelata e valorizzata. Il provvedimento fu però emanato quando ormai sembrava inutile. Forse proprio perché a quel punto era tardivo, e quindi innocuo. Il Partito Sardo d’Azione a causa delle delusioni e di una forsennata litigiosità interna era ormai ridotto a pochi punti percentuali e quindi si poteva attribuire a se stessi tutto il merito della decisione. Ben diverse le scelte che si facevano in Spagna all’uscita dal franchismo. Qui sinistra significava libertà, per i popoli riuniti da quello Stato, di autogovernarsi, pur in un quadro coordinato da istituzioni comuni. Al punto che una tale democrazia è riuscita, e riesce, a contenere gli attacchi di un indipendentismo violento, quello dell’ETA, ormai rifiutato anche dalla gran maggioranza del popolo basco. Invece la nemesi storica ha voluto che gli eredi della sinistra italiana pochi giorni fa approvassero in sostanza, forse più per opportunismo che per convinzione, il federalismo fiscale proposto da una forza politica, la Lega, che un giorno viene considerata infetta da razzismo e il giorno dopo viene corteggiata per possibili nuove alleanze. Avviene che con questi giochi si finisca per perdere la fiducia dei ceti popolari su cui si basava la propria forza. E così in Sardegna è avvenuto il distacco sentimentale di parte della tradizione sardista dalla sinistra. Che non può essere superata da operazioni di annessione elettoralistica come quella dei “Rossomori”. Ma con interventi in campo economico, sociale e culturale rispettosi dell’identità storica dei sardi. L’attività della giunta Soru, il primo presidente capace di parlare in sardo in pubblico, si è mossa in questo senso.
11 Febbraio 2009 alle 18:02
Caro professore,
anche se mi considero orfano politicamente e non ho vissuto gli anni del sardismo, mi trovo pienamente in linea con le sue parole, quindi con i suoi pensieri. Da disterrado provo nausea nel sentir parlare il “Cavaliere” di Sardegna, quasi un senso di violenza. la cosa che più mi preoccupa ma nello stesso tempo più mi interessa sarà il risultato elettorale. Non sarà soltanto un voto, ma un test QI. Se vincerà la destra sarà la dimostrazione che una forma di colonialismo è gia avvenuta nella mente dei sardi, separerà la coscienza critica dall’ignoranza berlusconiana e dei suoi seguaci. Mi farebbe più paura, tornando sull’isola, di non riconoscermi più. E allora troveremo conforto solo in Atzeni e nel suo “eravamo felici”
P.S. Mi farebbe piacere se potessimo comunicare anche via mail su varie questioni, sarde e letterarie. Con affetto, Alessando.