Un fronte proletario contro il fascismo
1 Aprile 2012Natalino Piras
Certo che cascano le braccia. Tanto è l’impegno, minimi i risultati. Non abbiamo lettori. Sono, siamo in pochi. Improbo e controproducente un esercizio di autoanalisi ché oggi più che ieri uno legge e commenta ciò che più gli pare e piace. Però qualcosa bisogna pur dirla per comprendere dov’è che sta la mancanza d’interesse: se nei contenuti o nella scrittura. I contenuti che questo giornale mette al centro della sua stessa ragione di esistere sono quelli della realtà del lavoro e, pesante concretezza nonostante le parole, della sua assenza. Il conflitto tra occupazione quotidianamente erosa dall’attacco del capitalismo, il governo Monti ne è una rappresentazione, e la ricerca disperata di un impiego qualsivoglia da parte di milioni e milioni di persone, è il focus del nostro “Manifesto”. Non possiamo, pure avendone capacità, parlare d’altro. Dobbiamo insistere, né per fideismo né per autoimposizione né per autoconvinzione, su tematiche che abbiano al centro la fabbrica, la storia e la non storia del movimento operaio. E pure il lumen: il sottoproletariato delle campagne ma pure urbano e metropolitano. Un contesto che da un punto di vista della scrittura può essere affrontato per vari generi e stili: politico, letterario, storiografico, giornalistico. È evidente che il contesto abiti-lavoro/dominio-sopraffazione non impedisce che dentro l’impostazione grafica del giornale entrino molte altre tematiche, molto altro: archeologia, religione, storia della Sardegna, limba sarda, tematiche giovanili, la Sardegna come isola dei veleni, sarditudine. Tutto però finalizzato al quem che il materialismo storico rappresenta come coscienza di classe e come organizzazione. Come atto, prassi politica non disgiunta da condivisione ideologica tra quanti al “Manifesto” lavorano. E come Resistenza.
Sta qui la prima grossa contraddizione. Il bacino d’utenza ipotizzato, giovani e no, non risponde, non legge secondo le attese. Come se le cose che dicono di loro non li riguardasse. O forse sono il modo e il metodo, il differente approccio. Forse la scrittura difficile, ostica: non in quanto grammaticalmente scorretta quanto perché interata, come una sindrome di Stoccolma, con il difficile contesto analizzato e descritto. Sorprende che abbiano seguito invece scrittori di scrittura facile quando affrontano lo stesso contesto del “Manifesto” in termini superficiali e con lessico da slogan, artefatto.
Tutti a dirgli bravo o se, quelle e quelli fanno finta di provocare, a cadere nella provocazione. Che non è degli oggetti del contesto, la gente della fabbrica e della sua mancanza, ma “loro”, degli scrittori di facile consumo e provocazione. Per questo pagati e remunerati. Non invece quelli che sul “Manifesto” scrivono per impegno, per dovere, per coscienza di classe (o sua memoria), a titolo assolutamente gratuito. Certo che cascano le braccia. Tornano in mente alcune canzoni di lotta da tutti cantate e non da tutti comprese negli anni del furore e di un “essere a sinistra” più moda che reale appartenenza: gli anni Settanta del Novecento. Una di queste canzoni, “Siam del popolo gli arditi”, fu in Sardegna pezzo forte dei “Compagni di scena” (ma qualcuno li chiamava “di cena”). Così attacca la prima strofa: “Ci dissero che cosa potremmo fare, con la gente dalla mente tanto confusa, e che non avrà letto probabilmente, neppure il terzo libro del Capitale”. Ma ita esti custu Capitale? Roba de pappai o de arropai?
È un bel rovello. Ricorda Migheddedda del mio paese in Barbagia, parlata diversa da quella campidanese sopra riportata, che pretendeva di leggere e spiegare Marx sotto i ponteggi agli operai che sopra costruivano e fabbricavano. Non lo stavano a sentire. Gli dava fastidio. Ridevano di lui. Un rovello che pure riguarda quelli del “Manifesto”, sardo e no, che ci ostiniamo a far leggere “gente dalla mente tanto confusa”. La stessa gente alienata dal lavoro e dalla sua assenza: oggi come settant’anni fa, al tempo in cui fu composta la canzone. Altro vuole l’alienazione. Mica trova consolazione nelle nostre parole. Prosegue, stavolta con più realismo, la canzone degli arrditi del popolo: “Portammo il silenzio nelle galere, perché chi stava fuori si preparasse, e in mezzo alla tempesta ricostruisse, un fronte proletario contro il fascismo”. Sta qui il saldo. È il vero dolore a spingere la voce, a ferire dentro, a far cercare più profonda e vera interpretazione. Una terribile contingenza storica non è tale se non viene vissuta come veramente terribile da una maggioranza rispetto a una minoranza. Spesso questa minoranza pretende di prendere su di sé la croce cha andrebbe più egualmente ripartita. Sta qui l’errore, forse anche del “Manifesto”, di pretendere la salita al Calvario sperando non nell’altrui compassione ma in una comprensione. Impossibile. Pochi sono i Migheddedda sotto, nascosti ed irrisi. Tanti quelli ai ponteggi, oggi pure virtuali. Dice la terza e ultima strofa della canzone: “Ci siamo ritrovati sulle montagne, e questa volta nostra fu la vittoria, ecco cosa ci insegna la nostra storia, se noi siamo divisi vince il padrone”. La divisione continua. Arduo ritrovarsi in montagna. È difficile scalarla. Natalino Piras