I beni comuni di Nacho
15 Aprile 2012Emilia Giorgetti
Le mani grandi e forti di Ignacio (Nacho) del Valle spolverano lo strato di sabbia che ricopre una grossa pietra vulcanica. Portano alla luce geroglifici preispanici. Dalla cima della collinetta si domina la grande spianata del Valle de México. Pochi metri sotto di noi, è la grande croce di legno eretta per ricordare i drammatici eventi del maggio 2006.
Nell’orizzonte lavato del crepuscolo estivo le sagome nere di due elicotteri militari, come ogni giorno, da anni, sorvolano la zona. Per Atenco, “luogo a fianco dell’acqua” in lingua nàhuatl, si doveva passare per raggiungere, dalla città stato di Texcoco, sulle rive del lago omonimo, l’isola incantata su cui sorgeva la scintillante Tenochtitlàn. E fu ad Atenco che, dopo la sanguinosa conquista della capitale azteca e il massacro di Tlatelolco, gli spagnoli incontrarono gli ultimi focolai di resistenza. Sembra questo il destino di una comunità agricola da sempre in lotta per non essere fagocitata dall’avanzata della megalopoli, un baluardo diventato simbolo della difesa della terra in Messico e in tutta l’America Latina.
Prima il lento prosciugamento del lago e l’abbassamento della falda hanno progressivamente spogliato il terreno rendendolo salmastro e sterile, poi sono arrivati gli espropri forzati. Questa fetta di pianura era stata scelta dal Presidente Fox per la costruzione del nuovo aeroporto di Città del Messico, che doveva essere il fiore all’occhiello del suo mandato (2001-2006). Insieme alle centinaia di chilometri di autostrade deserte, l’aeroporto, una infrastruttura totalmente inutile per la grande massa dei messicani che mai nella loro vita potranno permettersi di volare, doveva essere un nuovo omaggio al modello di sviluppo neoliberista scelto alla fine degli anni Ottanta da un Paese ricchissimo di risorse e di forza lavoro, uno dei tanti strumenti utilizzati per facilitare il saccheggio del territorio e della sua ricchezza. E contro l’aeroporto e l’umiliante offerta di indennizzo di 7.2 pesos per metro quadro di terra espropriata (1 euro corrisponde a circa 18 pesos) la comunità si compattò nel Frente Popular en Defensa de la Tierra (FPDT) e iniziò una lotta che ancora dura. Dopo due anni di conflitto, nel 2002, giunse una prima sospensione del progetto. Ma Fox e il governatore statale Enrique Peña Nieto (favorito nella corsa alle presidenziali 2012) decisero che l’FPDT, “un affronto per tutti i messicani”, avrebbe dovuto pagarla cara.
E così fu, secondo le migliori tradizioni della contrainsurgencia. Prima si preparò l’opinione pubblica attraverso una massiccia campagna di diffamazione. Il responsabile della Agenzia Statale di Sicurezza, viceammiraglio Robledo Madrid, arrivò a definire i membri dell’FPDT “sequestratori, omicidi, che meritano di stare in galera senza neppure la necessità di investigazioni che ne stabiliscano la pericolosità”.
Poi si orchestrò una provocazione: il 3 maggio 2006, Festività della Santa Croce, lo sgombero forzato di un gruppo di fioristi ambulanti nel Mercato di Texcoco richiamò immediatamente l’ FPDT e diede inizio agli scontri e ai blocchi stradali. Infine, si scatenò la repressione per riportare l’ordine e la legalità: due giorni di sospensione del diritto, uno scontro sanguinoso nel quale i morti, i feriti, i torturati, gli stuprati e il carcere duro furono da una sola parte, quella popolare.
“Avevamo ricevuto l’ordine di colpire tutto quello che si muoveva e di entrare nelle case a prendere quanta più gente possibile”, ha dichiarato un poliziotto. José Gregorio Arnulfo era già affetto da una malattia degenerativa che ne limitava i movimenti e l’uso della parola quando, aiutati da alcuni “collaboratori” locali, i poliziotti fecero irruzione nella sua casa. Lo colpirono ripetutamente, insieme alla moglie e al figlio, e poi lo trascinarono via con la forza per scaraventarlo, incappucciato, su una camionetta dove obbligarono altri prigionieri a calpestarlo brutalmente fino a spezzargli le costole e a produrgli lesioni gravi alla trachea e alla testa.
Ancora gli si riempiono gli occhi di lacrime quando, riverso sulle stampelle davanti alla sede del Frente, tenta di raccontarcelo con voce spezzata. Francisco Javier Cortés Santiago non può raccontare. A 14 anni fu ucciso davanti alla porta di casa da una pallottola calibro 38, sparata a meno di 70 cm di distanza. Tentò di ripararsi la testa con un braccio, in un ultimo gesto disperato. Guillermo Selvas e Mariana Selvas Gómez furono catturati mentre correvano in cerca di aiuto per Alexis Benhumea, uno studente universitario colpito al viso da distanza ravvicinata da un ordigno lacrimogeno. Quegli aiuti non arrivarono mai e Alexis morì dopo pochi giorni. Mariana fu torturata sessualmente dalla polizia e, come lei, almeno altre 23 donne rastrellate durante l’operazione. E poi Nacho e tutta la famiglia Del Valle. Nessuno degli appartenenti in forma diretta o indiretta a questa famiglia restò illeso: arrestati, torturati, ricercati, esiliati, il lavoro perso, le case devastate.
Quando arriviamo a casa, insieme a Nacho, è ormai calata la notte e la Trini sta preparando i polli ripieni da portare l’indomani a Città del Messico, per venderli in strada. Ne toglie sei, una bella fetta dei suoi previsti guadagni, e li mette sulla griglia, mentre noi puliamo i fiori di zucca e la verdolaga per una cena improvvisata. La Trini, con il suo sorriso, gli occhi grandi e la voce calda, ha percorso il Nord America e l’Europa cantando e testimoniando, mentre Nacho scontava la condanna a 67 (sessantasette) anni di carcere duro. Instancabile, non ha mai smesso di lottare.
Ora, anche grazie alla sua forza, Nacho è fuori da un anno. Era detenuto insieme ai due criminali più pericolosi del Paese: “Tanto mi temono!” dice, non senza un certo compiacimento. Perché lo temono ancora, anche se hanno dovuto liberarlo, cedendo alla mobilitazione mondiale in suo favore. E lo temono perché ogni giorno in Messico, e non solo, nasce un nuovo fronte di lotta in difesa dei beni comuni: la terra, l’acqua di un fiume, un tratto di costa, una foresta, una montagna sacra verso la quale migrare ogni anno per raccogliere il peyote e, soprattutto, l’identità culturale.
E’ una guerra senza esclusione di colpi, ormai: da una parte il grande capitale e dall’altra il pianeta con i suoi abitanti; da una parte il saccheggio delle risorse in nome di una visione economicistica della vita e dall’altra un modello antitetico, basato sulla protezione dei beni comuni e sulla condivisione; da una parte il potere di corruzione infinito della grande finanza e dall’altra le comunità rurali, unite nella affermazione della propria dignità. In questo conflitto il FPDT è sempre presente e, insieme al movimento zapatista, ne è diventato punto di riferimento.
Per questo, anche se il progetto dell’aeroporto è stato definitivamente abbandonato, Nacho e i suoi devono essere mantenuti sotto stretto controllo, delegittimati, diffamati, spaventati, in attesa di una buona occasione per colpire di nuovo. Si è fatto tardi, tra i canti e le chiacchiere. Dopo i baci, gli abbracci e la promessa di rivedersi presto, Nacho mi chiama in disparte con aria complice. In un grande quaderno rosso la Trini ha raccolto i disegni che lui le dedicava in carcere e che l’hanno mantenuto vivo. Non lo aveva mai fatto prima, ma nelle sue mani ruvide da lavoratore le fragili anime dei pastelli (le matite intere erano considerate pericolose e perciò proibite) si sono trasformate miracolosamente in una esplosione di scatole cinesi di fiori, che nascondono uccelli, che nascondono farfalle, che nascondono altri fiori, in un caleidoscopio infinito di colori.
“Così ho potuto resistere all’isolamento. Dovevo dimostrare di essere forte, più forte di loro. Di non cedere neanche un istante, di avere dentro di me tutta la determinazione a non farmi piegare” mi dice. “Quando torni ne faccio trovare uno anche per te”.
E così, alle prime luci dell’alba, come campesinos diretti al mercato de La Merced, rientriamo verso Città del Messico, con il capiente pulmino di Jorge stipato fino all’inverosimile di verdura rebelde, raccolta nella terra contesa.
19 Aprile 2012 alle 03:23
Grazie Emilia, questi pezzetti della tua vita messicana che ci fai intravedere attraverso “piccole” narrazioni,sono invero grandi regali che ci portano a guardare la vita con altri occhi e a cercare di muoverci in direzioni nuove.
Con affetto Lella
19 Aprile 2012 alle 11:33
Leggo questa ispirata e commovente testimonianza di Emilia sulla lotta del popolo messicano per il diritto di scegliere liberamente il proprio destino come un invito rivolto a noi a non cedere, a non tollerare i soprusi, a mettersi in gioco, a rischiare per la nostra libertà.