Niente di nuovo sotto il Sole

15 Aprile 2012

Marcello Madau

Si è ripreso a discutere vivacemente di cultura. C’è da dire che dopo l’esperienza di un ministro come Bondi e le parole di Tremonti sull’incapacità della cultura di sfamare, ogni documento che metta al centro la cultura come risorsa del paese sembra una boccata di ossigeno. Ecco perciò il successo iniziale del ‘manifesto per la cultura’ del Sole-24Ore (19.02.2012), il desiderio che ha mosso molti operatori culturali e associazioni, non certo necessariamente per contiguità ideologiche, ad aderire, penso avventatamente, al ‘manifesto dei professori’.
La cultura ha senso – questo si evince – solo se crea ricchezza economica. D’altronde siamo in un’epoca nella quale ogni cosa sembra esistere solo se ha un prezzo e status universale di merce. Uno status oggi ribadito ai massimi livelli giuridici. La cultura – assieme non a caso al lavoro – sarà subordinata nella Costituzione al pareggio di bilancio. Però, tutto sommato questi professori arconti, dalle pagine del giornale della Confindustria, operano una straordinaria localizzazione dell’argomento (per la verità ‘IL Sole-24 ore ha da anni una pagina culturale, e un inserto, decisamente importanti). Eppure stupisce il basso profilo del decantato ‘manifesto’, l’incauto termine di ‘rivoluzione copernicana’ usato dai ministri Ornaghi, Passera e Profumo (forse lo è davvero per loro). Ricordano che l’articolo 9 della Costituzione «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”.
Ma la definizione di cultura che viene data è davvero precaria: ‘(…) per “cultura” deve intendersi una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza. E per “sviluppo” non una nozione meramente economicistica, incentrata sull’aumento del Pil, che si è rivelato un indicatore alquanto imperfetto del benessere collettivo e ha indotto, per fare solo un esempio, la commissione mista Cnel-Istat a includere cultura e tutela del paesaggio e dell’ambiente tra i parametri da considerare.’. Ma poche righe prima avevano chiarito cosa intendono per cultura, paesaggio ed arte, anche con una certa impazienza “Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi strettamente economico. Niente cultura, niente sviluppo.”.
Niente cultura che non sia sviluppo economico. Ed il cerchio è chiuso.
Lungo il manifesto sono disseminate frasi davvero banali, che probabilmente servono per incantare qualche lettore disattento: la cultura è ricchezza, l’arte è pratica creativa, le istituzioni, il privato ed il pubblico devono collaborare.
Ma il gioco si svela quando si richiamano alla meritocrazia senza dire che le principali professioni nel campo dei beni culturali, archeologo, storico dall’arte, bibliotecario, antropologo, archivista e altre, non sono riconosciute. Succede a chi cerca di smontare il valore legale dei titoli di studio per ridurre a sacca di manodopera più o meno indifferenziata i lavoratori cognitivi.
Che la cultura debba godere di interazioni nei vari campi della società è il riconoscimento di un dato storicamente esistente. Ma la sua definizione è qua puramente cognitiva, non territoriale. L’essenza del sistema culturale italiano sta nel territorio e nelle sue ricche articolazioni, nella sua dimensione paesaggistica, profondamente storica.
Ancora: che si raggiunga con l’integrazione operativa dei ministeri è qualcosa non proprio di nuovo, in parte già visto con Tremonti: in genere annuncia una subordinazione del patrimonio culturale (e non il contrario), agli altri ministeri: economia, turismo, etc. In un solo termine: allo sviluppo.
Non vi è traccia del pensiero più attento dell’economia dei beni culturali, che ne discute l’essenza di ‘merce’, a partire dal differente funzionamento della curva dell’utilità marginale. Sono parole tecnocratiche che vengono agitate come bacchette magiche, in maniera esoterica.
Ma appena gratti trovi le vecchie formule dell’aprire ai privati, naturalmente – perché le parole qualche volta cercano di essere sobrie – di privati consapevoli del valore pubblico della cultura (traduci: della conseguente ampiezza di mercato possibile).
I santuari confindustriali si nutrono di un pensiero vecchio e superato, magari non glie ne serve uno nuovo. Cattivi maestri? No, cattivi professori.
E che privati. Diego Della Valle, per finanziare il restauro del Colosseo pretende di usare il ‘marchio’ Colosseo in esclusiva per molti decenni.

I professori ricordano l’ articolo 9 della Costituzione e fanno parte di un governo e di una maggioranza che – con l’inserimento ideologico nella stessa Carta del pareggio di bilancio – crea le premesse per depotenziare gli investimenti pubblici in questi settori.
Credo che la ragione fondamentale di questo rinnovato e un po’ banale tentativo di unire un pubblico ed un privato in profonda crisi, sia il tentativo di sfruttare la crisi irreversibile del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, e di impedire – o non vedere – l’unico passaggio storicamente innovativo: le pratiche di autogoverno dei cosiddetti ‘commons’ o ‘beni comuni’ (la cultura vi rientra pienamente), nuova prospettiva di uso efficiente e democratico degli stessi. Sfuggono al proclama articolazioni e valori territoriali della cultura.
Ciò inibisce, in una visione neo-antiquaria davvero vintage, la lettura integrata con il paesaggio. E’ un fatto particolarmente grave per il Mezzogiorno, per la Sardegna: realtà ricchissime e articolate che potrebbero essere governate, all’interno delle leggi dei beni culturali e del paesaggio che devono mantenere indirizzi di tutela unitari, dalle comunità e dai professionisti ad esse organici, allargando la platea dei soggetti su tutela, gestione e governo del territorio. L’unica alternativa democratica alla fine del sistema della tutela. In questo senso, pur presentando molti spunti interessanti, il manifesto TQ sul patrimonio storico-artistico e archeologico rimane ancora ancorato ad una prospettiva centralista e statalista. Si tratta allora di costruire, anche ex-novo, modelli di intervento che garantiscano i governo democratico della cultura, che si realizza con pratiche avanzate di autogoverno.
Ecco un punto centrale per lo sviluppo di nuove politiche democratiche di sinistra. Che giustamente viene richiamato dal ‘manifesto dei professori’ di sinistra, che propongono un ‘soggetto politico nuovo’ (meglio, come ricorda in questo numero Marco Ligas, una soggettività politica nuova.
Ci sono persino basi giuridiche alla quali appoggiarsi, nello stessa legge 42/2004, ovvero il Codice dei Beni culturali e paesaggistici (vedi ad esempio art. 1, 3; art. 4, 1; art. 5, 1) Un modello dal quale partire può essere, pur rivisitato, quello dei Piani Urbanistici Comunali, con l’acquisizione delle aree e la Regione come proponente e garante del quadro di regole.
Ma ora la Regione Sardegna, unificando centro-destra e centro-sinistra, propone una Fondazione unica per gestire tutto il patrimonio culturale; svuotando il suo potere di indirizzo e soprattutto schiacciando ogni forma di autogoverno dei territori.
E’ un progetto molto pericoloso per la cultura del nostro territorio. Un conto è appoggiare alle Fondazioni singole esperienze, musei particolari o contesti singoli, un conto è esternalizzare (di fatto è così) tutto il patrimonio culturale.
E’ un grave attacco alla democrazia e all’autogoverno. Temo che si stia aprendo la prospettiva, invitante per la politica tradizionale, di un nuovo spazio per il potere, di un altro esproprio della cultura come bene comune.
Sta ai comuni, anche ai soggetti del Quinto Stato non a caso frontalmente aggrediti dalle politiche neoliberiste di Monti (e suggestivamente rappresentato nel recente “La furia dei cervelli’ di Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri: ecco il collegamento al loro sito), organizzarsi in centri, reti e relazioni indipendenti, impiegare la propria soggettività a favore delle comunità e del territorio.
Sta alla politica – cogliendo l’occasione per esprimere una nuova soggettività – scegliere un campo d’azione adeguato alle sfide storiche in atto.

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