Il tributo barbarico
1 Settembre 2007Andrea Pubusa
C’è una forma e una sostanza nelle leggi e negli atti giuridici in genere, che induce molti a ritenere che la seconda, quando è condivisa, giustifichi la svalutazione della prima. E’ un tema ormai ricorrente in Sardegna, perché Soru emana provvedimenti, secondo molti, progressivi o quasi rivoluzionari nel contenuto, che tuttavia, e proprio per questo, vengono bloccati con pretesti formali. Insomma, il solito stantio formalismo che ostacola l’innovazione. Ora, non si può non essere d’accordo sul fatto che chi mostra una capacità contributiva con la proprietà di ville, grosse imbarcazioni ed altri beni di lusso debba contribuire adeguatamente al bene comune attraverso il pagamento di un giusto tributo. Tutto ciò è in perfetta armonia con il principio di progressività del sistema tributario enunciato nella nostra Costituzione ed è una perfetta applicazione del principio di eguaglianza che richiede trattamenti uguali a situazioni eguali e trattamenti differenziati a situazioni diverse. E certo chi ha simili beni per il solo svago è in condizione differente dai comuni mortali che spesso non sanno come finire il mese. Infatti si tratta spesso di immobili che acquisiscono un valore altissimo in ragione della irripetibilità dei luoghi in cui stanno, luoghi ancor più appetibili a seguito della normazione di tutela che la Regione sarda ha introdotto (si ricordi ben prima di Soru: la legge urbanistica regionale del 1989 fu unanimemente giudicata dalle associazioni ambientalistiche la migliore d’Italia). Ma ecco una prima osservazione: se è così, perché il tributo è imposto solo ai non residenti? Forse che i sardi proprietari di ville e grosse imbarcazioni non mostrano la stessa capacità contributiva o forse non recano lo stesso nocumento all’ambiente dei proprietari continentali? O forse non hanno gli stessi vantaggi dalla irripetibilità dei luoghi. E qui sta anche il problema: nel rinvio alla Corte costituzionale della legge Soru da parte del governo, la tassa sul lusso non c’entra. C’è in gioco qualcosa di molto più importante, viene chiamato in causa uno dei principi centrali della nostra Costituzione: il principio di eguaglianza dei cittadini, senza discriminazione in ragione della loro provenienza regionale. Il quesito è: può una legge regionale introdurre una disparità di trattamento in ragione della residenza del cittadino? Come si vede, la posta in giuoco è l’idea stessa di cittadinanza in Italia. Insomma, qual è la base inviolabile di questo status. Come si vede, viene in considerazione lo stesso concetto di unità dell’ordinamento, che significa anche base minima, nucleo essenziale di diritti e doveri per tutti i cittadini italiani ovunque residenti. E su questo non si scherza. E’ un profilo solo formale? Si può prescinderne, facendo prevalere profili sostanziali e di merito, contingentemente condivisi? E, quando spezzata l’unitarietà della cittadinanza, poniamo la Regione Lombardia imponesse una tassa di soggiorno ai sardi e ai meridionali, che si rechino in quella operosa città? E il balzello sarebbe più accettabile se imposto solo a coloro che hanno un alto reddito? E se il ricavato venisse destinato ai lavoratori ultracinquantenni privati del loro posto di lavoro? Certo, l’idea è allettante. Ma, affermato il principio, potrebbe anche essere imposto a tutti e non per finanziare opere di bene. In realtà, una volta infranto il principio di eguaglianza fra i cittadini a seconda della residenza o della provenienza, ogni Regione potrebbe sbizzarrirsi a pensare misure di destra o di sinistra che introducono dei distinguo fra cittadini. Sarebbe la fine dell’unitarietà dell’ordinamento nei suoi elementi essenziali, la fine dell’idea di solidarietà. Per parte mia, se ne avessi il potere, ai ricchi (alla Briatore) imporrei non solo la tassa sul lusso, ma anche una prestazione personale che un mio vecchio zio (non so se a torto o a ragione) riteneva la cura di molti mali di lor signori: e cioè gli chiederei, se vuol trascorrere l’estate da noi, di dissodare, con pala e piccone, uno dei tanti assolati e incolti campi di Gallura. La prestazione contribuirebbe certamente a migliorarne non solo il fisico, ma anche lo spirito. Ma realisticamente, sotto questi chiari di luna, pensiamo che questa sia la prospettiva? Non ci accorgiamo che la Costituzione è sotto attacco sul fronte sostanziale, e che sul piano materiale è già stata revisionata anche nella sua prima parte? Dov’è la Repubblica fondata sul lavoro? E la sovranità popolare, se non eleggiamo neppure i nostri parlamentari? Aumenta o diminuisce il divario fra ricchi e normali cittadini? Si afferma o retrocede la prospettiva egualitaria dell’articolo 3 della Carta fondamentale? Presto, la Carta sarà di nuovo sotto tiro concentrico di destre e centro (teniamo sotto osservazione Veltroni e il Pd) anche sul piano formale. Tutta le legislazione, frutto della vittoria della Resistenza al nazifascismo, è stracciata: la Carta dell’Onu come il diritto del lavoro (dov’è lo Statuto dei lavoratori?), come il principio pacifista (che fine ha fatto l’articolo 11 della Costituzione e per mano di chi: solo di Berlusconi?). Viene spezzato addirittura il principio della rappresentanza, con leggi elettorali assurde, che hanno abolito non solo le multipreferenze, ma anche la scelta degli eletti, demandando la formazione del Parlamento a una ventina di segretari di partito. E i listini? E i Capi che ci esentano dal partecipare e decidono per conto loro? Il tutto in nome del sostanzialismo, della lotta al formalismo, dell’intralcio all’efficienza e alla governabilità. Ecco, questo è il quadro. Difendere le forme, ossia la Costituzione e i suoi principi significa oggi, coi rapporti di forza in campo, fare la più grossa battaglia in favore della democrazia e delle classi popolari. Certo, si obietta, ma l’eguaglianza è già minata da tante leggi inique. Verissimo. Ma quando avremmo affermato che “terra e sangue” giustificano la discriminazione noi avremmo aperto il varco alla più odiosa delle violazioni del principio di eguaglianza: all’idea che non considera gli uomini persone al di là della loro origine e della loro provenienza. E, questo principio incivile, fonte di tutte le discriminazioni (e di tutti i razzismi), si ritorcerà, presto o tardi, contro i ricchi o contro i poveri? No. Non baratto il principio di eguaglianza con nessuna misura, giusta o sbagliata, legata all’appartenenza regionale dei cittadini; alla “terra e al sangue”. Penso, come Einstein, che esista una sola razza, quella umana, e che nelle persone circoli lo stesso sangue ovunque esse si trovino. Se questi sono i problemi, la tassa sul lusso non c’entra. La questione sollevata dal governo tocca un aspetto centrale della forma di stato in Italia e dei diritti fondamentali di cittadinanza. La Corte costituzionale, nello sciogliere il dilemma, inciderà a fondo nello sviluppo del nostro ordinamento, dovrà confermare o ridefinire i principi della prima parte della Carta. Una sinistra che non abbia smarrito l’orientamento non dovrebbe avere dubbi sulla posizione da assumere. Sulle tasse c’è sempre tempo per discutere e per stabilirle equamente e nel migliore dei modi. Mi dispiace che il Manifesto, fondato dall’uomo più egualitario che abbia conosciuto, a volte sottovaluti questi aspetti.
3 Settembre 2007 alle 17:22
Sono d’accordo con i dubbi di Pubusa (e del governo nazionale) sulla legittimità della c.d. tassa sul lusso: vedremo cosa ne dirà la Corte Costituzionale. Ciò che è criticabile non è il fatto di tassare il lusso ma di far pagare questa tassa sulla base di principi di appartenenza.
Eppure il problema posto da Soru resta, e molte democrazie lo hanno affrontato in maniera simile, ovvero: se necessario si mettono in atto azioni positive e discriminatorie (a favore di minoranze, dei disabili, delle donne etc.) che, proprio in ragione del loro obiettivo di tutela (di un diritto leso), non feriscono il principio generale di uguaglianza.
Detto ciò, quale diritto viene a “riparare” la tassa sul lusso? Che uso verrà fatto di quelle risorse? A tutela del diritto ambientale (universale) o di quello degli indigeni? O della qualità dei servizi al turista?
Ad una visione più attenta mi pare un tentativo della politica per solleticare nella popolazione sarda meccanismi identitari e velleitari.