Ballata di suicidi
16 Maggio 2012Natalino Piras
Nei miei romanzi “La mamma del sole” (1995) e “Sepultas” (2006) parlo di gente suicida. Uomini e donne. Sono dentro contesti pastorali disgregati, una morienza antropologica dove è l’industrializzazione fallita a spingere, a frantumare quel che resta delle devastazioni. Come se la fabbrica invece che merce e salario producesse veleno per sé. I suicidi hanno perso la bussola, non individuano nel loro vivere più nessun valore, nessun tornaconto, nessuna dignità. Impossibile qualsiasi resistenza perché, dice Pasternak, “il suicidio è la viltà dell’anima che cede all’eroismo del corpo”.
Cosa puoi fare se sei mangiato dentro, se ti corrode l’inutilità, se il tuo simile non ti appare più come elemento con cui condividere disperazione e speranza? Non c’è nessun senso di possibile resurrezione, nessun “non omnis moriar”, non morirò del tutto. Qui si muore e basta.
Nella finzione del romanzo che riflette la realtà. Nel reale dove la pratica del darsi morte è come un contagio. La perdita di lavoro dipendente, di possibilità di impresa, è la perdita del valore assoluto della vita. Non si è degni. Morire. Dissolversi. Tutto il resto è silenzio. Vuoto. Nessuna solennità funeraria. Ha lasciato detto qualcuno:
“Volevo essere vivo. Me lo impediscono. Da morto non seppellitemi né crematemi. Buttatemi in una discarica”.
Come facevano un tempo per gli asini vecchi, quando li ammazzavano perché non servivano più né come soma né come carne. Il fatto è che gli asini vecchi non scelgono la morte. La subiscono. La gente resa inutile dalla mancanza di lavoro ha la morte come opzione ultima. Come fatto primario.
Non c’è altro in giro. Né amici né famiglia né affetti. Il sentimento rovesciato e abbrutito scende negli abissi della ragione. È qui stanno i demoni. Hanno eletto a dimora il buio, solo il buio inerte, il tempo fermo a prima di qualsiasi possibile creazione. Non c’è visione di progetto nei suicidi. C’è solo, summa della contraddizione in termini, assenza. Se lavoro significa vivere e se l’assenza di lavoro sta per non-vita, allora il suicida trova giuste motivazioni.
Altro che politica del rigore. Questa che impera in tutta Europa è una politica di morte. “Il lavoro rende liberi” avvertiva ignominiosamente la scritta all’entrata di Auschwitz, campo di morte. Non ci si è liberati, in questa Europa, in questa Grecia, in questa Italia, in questa Sardegna, dall’ignominia di quella scritta.
Il lavoro rende liberi di ammazzarsi. Se il lavoro non c’è è legittimo sciogliere qualsiasi tipo di vincolo. Quale più immondo pensare e programmare.
Altro che politica dei tagli e del rigore. La spinta al suicidio non viene più da Auschwitz ma da coloro che dicono di seguire e applicare principi opposti alla logica dello sterminio. Si dirà. Ma i suicidi ci sono sempre stati. Con o senza lavoro. Il fatto che questi nostri suicidi li sospinge il “senza lavoro”. Hanno messo l’etica del lavoro al centro di tutto e se questa etica vedono tradita e oltraggiata non hanno altra scelta. Non c’è più possibilità di lotta di classe. Non sono i nostri suicidi come Raul Gardini né Gabriele Cagliari al tempo di tangentopoli. Là non c’era il fallimento d’impresa ma l’abominio del liberismo che da maschera grottesca passava a improvvisa vampata di rimorso. Noi così leggiamo il crack finanziario che ha spinto i tangentari a darsi morte. La visione seppur improvvisa di migliaia e migliaia di vite umane sacrificata dall’ingordigia ha chiesto loro redde rationem. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo li ha ripagati con la stessa moneta. Ma qui invece, i nostri suicidi, quelli che fanno contagio, untori di nuova e tremenda peste, sono disoccupati vecchi e quelli nuovi, impresarieddos, padroncini, neppure manovali, migliaia e migliaia di senza speranza.
E sanno, dandosi la morte che questo uccidersi non vale neppure più come grido. Scrive Massimo Recalcati su “Repubblica” del 15 maggio: “Marx aveva assolutamente ragione a rifiutarsi di considerare il lavoro un mero mezzo di sostentamento. Egli pensava che l’uomo trovasse in esso non solo il mezzo per guadagnare il pane necessario, ma anche e soprattutto la possibilità di dare senso alla propria vita, di renderla diversa da quella animale, di renderla umana”.
Il suicidio non ha niente di umano perché manca ai suicidi la visione del mondo come forma. Solo il vuoto vedono. Prima che il loro buio si aggiunga alla massa di buio, ogni giorno, ogni ora, più consistente.
16 Maggio 2012 alle 17:46
Non posso fare a meno di notare che i suicidi di lavoro sono uomini. Non sono d’accordo con la visione che Marx dà del lavoro, ossia è ovvio che lui la pensasse così, era uomo. È per voi uomini che il lavoro è tutto e questo dovrebbe darvi da pensare. La società maschilista in cui viviamo vi ha relegato da millenni nella sfera pubblica e quando questa vi sbatte la porta in faccia pensate di essere finiti e siete capaci di suicidarvi senza pensare evidentemente un solo attimo a moglie e figli (che dopo il vostro suicidio staranno sicuramente peggio). I suicidi del lavoro sono sicuramente causa del neoliberismo ma questo aspetto a mio avviso non è secondario.