Referendum anti-casta? Ma mi faccia il piacere!
1 Giugno 2012Stefano Deliperi
I referendum regionali sardi svoltisi lo scorso 6 maggio 2012 secondo molti rappresenterebbero un forte scossone anti-casta, termine ormai d’uso comune come comunemente viene adoperato spesso e volentieri a sproposito. Ecco uno dei primi risultati acquisiti, appreso dalle dichiarazioni (serie, non ironiche) del Presidente della Regione autonoma della Sardegna Ugo Cappellacci: “la Giunta ha già adottato le prime decisioni che danno seguito al voto espresso dai Sardi il 6 maggio sui consigli di amministrazione …. Abbiamo infatti avviato il passaggio dai consigli di amministrazione ad un amministratore unico. Per quanto riguarda la Carboslulcis la decisione è ad effetto immediato perché consentito dallo statuto senza che siano necessari ulteriori adempimenti. Abbiamo nominato un giovane amministratore locale di 29 anni, laureato in Giurisprudenza, praticante avvocato, mediatore civile, docente e collaboratore del dirigente scolastico presso la scuola secondaria superiore: il dottor Alessandro Lorefice”.
Chi è Alessandro Lorefice? Un manager, come necessario per la Carbosulcis s.p.a., centinaia di milioni di euro di valore, 400 dipendenti, un progetto da 1,5 miliardi di euro per la ricerca del carbone eco-sostenibile? E’ un consigliere comunale (PdL) di Iglesias, pluri-diplomato, neo-laureato in giurisprudenza presso l’Università telematica “Niccolò Cusano” (ben 84/110 il voto di laurea), collaboratore e docente (ultimamente di “gestione delle portinerie di alberghi e agenzie”) dell’Istituto tecnico statale “Enrico Fermi” di Iglesias, diretto dal padre Raffaele, già consigliere comunale e condannato a due anni di reclusione per reati contro la pubblica amministrazione (sentenza G.I.P. Tribunale di Cagliari, 26 ottobre 1993, n. 383). Non c’è traccia di competenze manageriali, tantomeno in campo minerario.
Al di là di scelte di “alta amministrazione” che sarebbero materia soprattutto per la magistratura ordinaria ed erariale, i referendum del 6 maggio scorso stanno offrendo comunque “materia prima” più per un trattato di schizofrenia sociale e giuridica che per venire incontro alle sacrosante esigenze di cambiamento, trasparenza, efficienza manifestate da una buona parte dell’elettorato sardo.
I 526.661 elettori che si sono recati alle urne (il 35,51% dell’elettorato, quorum validi per tutti e 10 i referendum) hanno deciso l’abolizione delle quattro “nuove” province (Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra, Olbia-Tempio), l’abrogazione degli attuali criteri per le indennità dei Consiglieri regionali, hanno espresso il parere consultivo per l’abolizione dei consigli di amministrazione di enti e agenzie regionali, per la diminuzione a 50 del numero dei Consiglieri regionali, per la nomina dei candidati alla carica di Presidente della Regione mediante il metodo delle “primarie”, per la riforma dello statuto speciale attraverso l’elezione di un’assemblea costituente a maggioranza schiacciante dei votanti. Hanno espresso il parere consultivo sull’abolizione delle quattro province “storiche” (Cagliari, Sassari, Nuoro, Oristano) a netta maggioranza, sebbene minima parte del corpo elettorale (341.956 su 1.479.925, il 23,10% degli elettori).
E dopo è stato il caos, in gran parte prevedibile.
Per certi aspetti, un vero e proprio marasma (mentale), che ha fatto emergere tutta l’inadeguatezza della “casta” politica regionale e, in particolare, della “casta referendaria”.
Il sistema degli enti locali è, infatti, la “base” per l’intero sistema amministrativo regionale sardo: dalla sanità all’edilizia popolare, dai consorzi industriali alla protezione civile, dal trasporto pubblico locale alle scuole superiori, dalle competenze sulla caccia al parco naturale “Molentargius-Saline”, dai centri commerciali ai Centri servizi per il lavoro, dai controlli ambientali ai mille altri rivoli di attività amministrativa dove in ogni caso le Province hanno voce in capitolo.
Con la proclamazione dei risultati referendari in assenza di una qualche legge di riforma, di fatto, sarebbe stata bloccata gran parte dell’attività amministrativa in Sardegna, direttamente o indirettamente.
Conseguenza questa bellamente ignorata dagli esponenti del comitato referendario (fra questi alcuni “storici” anti-casta come Massimo Fantola, da 30 anni docente universitario, senatore, consigliere regionale, consigliere comunale, candidato a sindaco di Cagliari, e il miracolato Andrea Prato, oggi teatrante e già non rimpianto assessore regionale dell’agricoltura), compreso lo stesso presidente Cappellacci, oppositore di se stesso e beneficiario involontario di un incidente stradale che all’indomani del referendum gli ha consentito di non esporre le sue inesistenti proposte per la necessaria fase di transizione legislativa/amministrativa.
Ma il paradosso è nel fatto stesso che i Riformatori Sardi – vero e proprio “motore” referendario – fossero fra i promotori delle nuove Province e insieme al Presidente Cappellacci costituiscono parte fondamentale dell’attuale maggioranza governativa regionale. Che cosa impediva quantomeno la presentazione di qualche straccio di proposta di riforma del sistema delle autonomie locali?
Eppure – come ben evidenziato anche dai quattro costituzionalisti coinvolti dal Consiglio regionale (Gianni Contu, Bebetto Ballero, Pietro Ciarlo, Andrea Deffenu) – la mancata adozione dei necessari provvedimenti legislativi e amministrativi avrebbe integrato gli estremi del procedimento di scioglimento del Consiglio regionale ex art. 50 legge costituzionale n. 3/1948 e s.m.i. (statuto speciale per la Sardegna). Non solo. Secondo il parere dei quattro costituzionalisti, con l’abrogazione referendaria della deliberazione consiliare del 31 marzo 1999 si determina “l’assenza della delimitazione dei confini dell’ente provinciale e della relativa popolazione”, elementi fondanti dell’ente territoriale. E “l’avvenuta soppressione”, di fatto, “di tutte le Province della Sardegna si pone … in palese violazione non solo con l’art. 114 della Costituzione, ma anche con l’art. 43 dello Statuto Speciale”, che contempla le Province di Cagliari, Sassari e Nuoro (Oristano verrà istituita con legge statale nel 1974).
Essendo gli effetti del referendum abrogativo meramente demolitori, è necessario quindi provvedere a una riforma del sistema sardo delle autonomie locali nel senso indicato dal corpo elettorale votante: abrogazione delle “nuove” Province, ridefinizione e snellimento delle Province “storiche”, ridefinizione delle varie (e numerose) normative regionali che contemplano ruoli di province e circoscrizioni territoriali provinciali.
Una grande, profonda e virtuosa riforma da fare ora-subito-adesso.
Invece, la “casta” politica regionale – compresa la “casta” referendaria – ne è stata incapace: nella notte del 24 maggio scorso ha approvato la legge regionale n. 11/2012 di rinvio delle scelte.
Di fatto (seppure non esplicitata) è prevista lì eliminazione di tutte le Province fra nove mesi, il 28 febbraio 2013. Al loro posto Unioni di Comuni (“funzioni da attribuire alle unioni di comuni e/o ad altre forme associative”, art. 1, comma 1°). Entro il 31 ottobre 2012 il Consiglio regionale approverà una legge di riordino del sistema degli enti locali, poi – entro il 31 dicembre 2012 – si svolgeranno le consultazioni dei Comuni e dei cittadini mediante referendum (consultazioni obbligatorie in quanto previste da Costituzione e Statuto speciale per la delimitazione delle circoscrizioni locali). Infine, l’1 marzo 2013 ci sarà il passaggio di consegne tra gli attuali organi provinciali ora prorogati e le nuove Unioni di Comuni. Ovviamente sempre che siano approvati con referendum e sempre che l’intera procedura referendaria non sia dichiarata illegittima in seguito ai ricorsi esperiti dall’Unione Province Sarde (U.P.S.). Udienza davanti al Tribunale civile di Cagliari il prossimo 18 ottobre.
Però, emerge un difetto di fondo: quante saranno le nuove “unioni di Comuni”? E quante le relative nuove strutture politico-amministrative? Avremo dieci, venti o chissà quante nuove “mini-province”? Con quali costi e con quale efficacia? E la presenza delle Province nella Costituzione e nello Statuto speciale dove la lasciamo? Anche il Governo Monti ne ha dovuto prendere atto con la riforma di cui alla legge n. 201/2011. Alla Regione autonoma della Sardegna ne farà prender atto la Corte costituzionale?
E in tal caso gli elettori sardi non si ritroverebbero presi in giro?
Misteri delle “caste”, della possibile loro moltiplicazione e dei relativi referendum.
1 Giugno 2012 alle 15:26
Casta sarda del sistema di potere, ad iniziare da Fantola e Cappellacci, non gli importa niente di riformare le istituzioni regionali per ottenere efficienza e trasparenza, ma usarle come un utile strumento per riprodurre se stessi nella politica regionale,senza limite alla indecenza per il ruolo svolto fino ad oggi.
5 Giugno 2012 alle 17:25
Altro che Totò ci vorrebbe per descrivere la situazione di questi politicanti, che di tutto si preoccupano fuorché della salute -fisica e mentale – loro e dei cittadini (o sudditi?). Basti pensare alle migliaia di antenne radiotelevisive ficcate dovunque, ai radar antisbarco ecc. ecc.insomma all’inquinamento da elettromagnetismo. Ebbene, c’è qualcuno che se ne occupi oltre a quei soliti tre o quattro gatti che niente contano?(ma non a chiacchiere e/o sproloqui più o meno dotti? Almeno per dare un segno di vitalità dal basso( tanto si sa benissimo che niente poi si risolve).
Altro che Totòòòòòò!!!!