Gli OPG sardi e l’assessore De Francisci
1 Giugno 2012Roberto Loddo
Il comunicato stampa dell’Assessorato alla Sanità del 2 maggio non fuga le preoccupazioni suscitate dall’articolo comparso su L’Unione Sarda del 27 aprile scorso anzi, nello smentire le aumenta. Infatti, dire che “in Sardegna non aprirà nessun nuovo piccolo manicomio né ospedali psichiatrici giudiziari, ma strutture in grado di accogliere i detenuti con patologie della psiche, con l’obiettivo di tutelare la loro salute in una cornice di sicurezza per il resto della cittadinanza”, rappresenta un evidente ossimoro. Come modello di OPG non si possono avere le famigerate strutture della penisola visitate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, accontentandosi di realizzarne altre nelle quali siano attuate le “misure di sicurezza” in ottemperanza alle norme del codice penale, garantendo il decoro ma privilegiando di fatto la custodia rispetto alla cura. La cura deve essere garantita nei luoghi deputati a ciò e ai percorsi riabilitativi, nelle relazioni col mondo esterno, nella integrazione sociale, nella restituzione dei diritti di cittadinanza. Nulla di ciò è possibile in luoghi totalizzanti e segreganti, peraltro incostituzionali.
Le caratteristiche degli OPG, o luoghi simili, sono due: il trattamento sanitario obbligatorio e la segregazione. E costruire una struttura apposita che agisca “in una cornice di sicurezza per il resto della cittadinanza” significa appunto punire e non curare. Sia chiaro che per noi non vi è alcun conflitto tra le esigenze di tutela della salute e tutela della sicurezza, di tutti i cittadini e quindi anche degli internati in Opg. Occorre però saperle coniugare in modo da non ricadere nelle odiose e oramai illegali pratiche di segregazione e attivare trattamenti sanitari che non abbiano più nulla a che fare con metodologie e filosofie fondate sui concetti di “pericolosità sociale per malattia mentale” che non hanno alcun fondamento scientifico e aprono drammaticamente la strada all’internamento e all’isolamento delle persone con disturbo mentale imputate di reato.
Abbiamo ripetutamente fatto presente nell’ultimo anno che oltre il 30% degli internati negli OPG ha commesso reati cosidetti“bagatellari”, cioè di entità molto modesta e quindi ben poco indicativi di pericolosità, e non meno del 25%, pur non avendo più un giudizio di pericolosità sociale, si vede ripetutamente prorogata la misura di sicurezza in regime di internamento. Ciò accade perché spesso i Dipartimenti di Salute Mentale di competenza e le ASL di appartenenza, non predispongono un programma personalizzato di presa in carico indicando le soluzioni alternative. Va quindi abolito il pregiudizio della pericolosità della sofferenza mentale e va ricordato che in Italia ci sono circa 600 mila persone che soffrono di disturbi mentali gravi e solamente uno su mille commette reati. Percentuale decisamente inferiore ai cosiddetti “sani di mente”. Chi commette reato, seppure sofferente mentale, deve poter essere giudicato come qualsiasi altro cittadino e scontare la sua pena se condannato. E come qualunque altro cittadino, se le sue condizioni di salute sono incompatibili con il regime carcerario, deve poter beneficiare delle misure alternative.
La questione Ospedali Psichiatrici Giudiziari è inoltre strettamente connessa al funzionamento dell’intero sistema dei servizi di salute mentale di comunità. Occorre dare risposte concrete e tempestive ai bisogni delle persone che vivono la condizione della sofferenza mentale. I Dipartimenti di Salute Mentale e le ASL quindi devono farsi carico e la Regione deve mettere gli stessi nelle condizioni di poter operare e garantire ai cittadini quanto le stesse norme regionali e nazionali prevedono. Occorre rendere operativi i centri di salute mentale sulle 24 ore e 7 giorni su 7, dotandoli di tutte le risorse umane e finanziarie necessarie a garantire percorsi di cura personalizzati e orientati alla ripresa. Solo servizi capaci di farsi carico possono prevenire situazioni di abbandono e garantire alternative all’internamento in OPG (o strutture similari), nel rispetto delle sentenze della Corte Costituzionale (n°253 del 18.07.2003 e n° 367 del 29.11.2004) e della Corte di Cassazione (prima sezione penale del 21.10.2004)
Questo rappresenta non solo un approccio più civile per le persone che soffrono di disturbi mentali, ma anche una soluzione economicamente vantaggiosa per la comunità regionale. Per questo chiediamo, ancora una volta, di essere ascoltati e di conoscere i programmi che la Regione intende avviare in questa materia. Consapevoli, come associazionismo sociale, delle responsabilità che ci siamo assunti nei confronti dei cittadini che soffrono di disturbi mentali, delle loro famiglie e della società sarda, noi intendiamo collaborare, con la massima disponibilità ma anche determinazione, alla costruzione dei processi progettuali necessari aperti anche a soluzioni innovative come indicato dalla Campagna Nazionale “Un Volto un Nome”.
Non si sottovaluti inoltre il problema, tutt’ora aperto, delle pratiche coercitive e quindi illegali che persistono in quasi tutti i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura della Sardegna, luoghi di cura e non di internamento con non più di 15 posti letto e con personale sanitario presente 24 ore su 24. Come si può, quindi, pensare che una struttura con 20 posti riservati a sofferenti mentali rei e con misura di sicurezza detentiva, magari isolata rispetto al contesto urbano, possa garantire percorsi di cura e riabilitazione psico-sociale? O addirittura che questi luoghi non possano velocemente trasformarsi in “contenitori dei casi più scomodi” rendendo necessaria la sua moltiplicazione?
Per questi motivi ci rivolgiamo, ancora una volta, all’Assessore alla Sanità e al Presidente della Regione Sardegna per rivendicare una nostra diretta partecipazione, unitamente ai Dipartimenti di Salute Mentale, nei processi di consultazione e di programmazione degli interventi.