Il poeta sulla sedia a sdraio
1 Settembre 2012Mario Cubeddu
I festival letterari sono in pericolo, i festival stanno morendo. Per guarire il malato grave forse può servire l’analisi del contesto genetico e ambientale e l’esame dei sintomi della malattia. Negli ultimi dieci anni la Regione Sardegna ha realizzato un miracolo: con 500.000 euro all’anno, un decimo di quanto spende per qualsiasi progetto di sviluppo territoriale senza risultato, ha inventato il festival letterario sardo. Un’entità di successo nazionale e internazionale, un piccolo gioiello di cui la cultura in Sardegna può andare fiera. A Gavoi, a Cagliari, a Seneghe, avviene ogni anno un miracolo con la presenza di artisti interessanti, stimolati dalla presenza di un pubblico attento, intelligente, partecipe.
Alla nascita dei festival letterari sardi hanno contribuito tanti elementi. Certo ha contato il modello costituito dai tanti festival europei: musicali, di teatro, di poesia. Nati per iniziativa spesso di artisti e intellettuali innovatori che volevano portare l’arte in situazioni e contesti inediti, sono stati sostenuti e consolidati nel tempo dalla fiducia delle istituzioni. In Inghilterra e in Francia il festival sembra avere dietro di sé le amministrazioni pubbliche e i corrispettivi dei nostri assessorati al turismo che vedono in essi un’attrattiva capace di variare e arricchire l’appeal di località di soggiorno estivo. Non è un caso che tanti organizzatori di limitata fantasia giochino sull’assonanza tra stagione “estiva” e f(estiva)l; oggi essi si rivolgono soprattutto al vacanziere che viene invitato a un ascolto o a uno sguardo rilassato e poco impegnato. In alcuni festival letterari francesi la forma di sedia prevalente è quella della sdraio che siamo soliti associare ai riposini pomeridiani all’ombra di una terrazza o di un albero. L’impatto culturale dei festival è quindi limitato e indiretto e riguarda soprattutto gli organizzatori e i volontari che si prestano a dare una mano con entusiasmo. I festival servono inoltre a promuovere il lavoro e l’attività di artisti e scrittori che si dedicano all’organizzazione. Si fa presto a ricostruire la vicenda sarda, visto che la maggior parte dei nostri festival non supera i dieci anni di vita. In principio ci fu Time in jazz, il festival ideato da Paolo Fresu, subito frequentato da tutto il ceto medio “intellettuale” sardo e dagli scrittori. Il primo decennio di attività a Berchidda coincide con la comparsa de “Il maestrale” e il successivo affermarsi di una narrativa sarda capace di passare il mare, di trovare contratti editoriali con editori nazionali e di salire sulla ribalta internazionale. Parlavamo di narratori sardi e infatti “Isola delle storie” di Gavoi rimane un festival che rivolge essenzialmente la sua attenzione al romanzo e al racconto. Lo spazio della poesia è stato occupato subito dopo dal “Cabudanne de sos poetas” di Seneghe che ha introdotto anche lo sguardo privilegiato sulla realtà sarda, da accostare alla produzione italiana e internazionale senza burbanza e senza complessi di inferiorità. I festival letterari sardi nascono col sostegno della Regione sarda che incrementa per finanziarli la voce di bilancio destinata alla promozione della lettura. Sono 500.000 euro all’anno, un granello rispetto alle cifre del bilancio regionale. Al contributo cagliaritano si aggiungono quelli delle amministrazioni locali, comuni e province, e delle fondazioni bancarie. Chi si fermi un momento a considerare lo stato di salute di tutti questi organismi oggi in Sardegna trova subito la spiegazione della crisi dei festival letterari. A questo si aggiungono i ritardi, le incertezze, il quadro generale di instabilità. I festival 2012 si celebrano sotto il segno del rischio e dell’azzardo per le associazioni culturali responsabili, appena mitigati dalla fiducia degli enti locali.
E’ un altro campo in cui si vede l’assenza di una politica regionale seria e credibile. In una regione turistica i festival di ogni arte costituiscono probabilmente un fenomeno irreversibile. Sono lo strumento più semplice per intrattenere con una spesa relativamente modesta i residenti e i visitatori di età e livello culturale che non si accontentino dell’ombrellone e della sala da ballo. Per le stesse ragioni sono gratificanti per gli organizzatori e le strutture amministrative su cui si riverbera l’aura di prestigio e fascino del poeta, dello scrittore noto, del personaggio della televisione e del cinema. Per questo oggi tutti vogliono il loro festival e il numero di domande indirizzate agli assessorati si avvicina ormai a quello complessivo delle città e dei paesi sardi. A questo punto ci sono solo due alternative: o qualcuno dall’alto sceglie un numero di iniziative degne di un sostegno forte e garantito, oppure chi vuole fare il festival deve procurarsi per conto suo i soldi per realizzarlo. E’ quello che sembra pensare l’attuale assessore alla cultura quando afferma che il futuro dei festival può essere garantito solo dalle sponsorizzazioni private. Solo che la Saras inquina in Sardegna ma finanzia l’Inter a Milano, non i festival letterari. E il resto del tessuto produttivo non mostra particolare interesse per il sostegno alle iniziative culturali. A parte naturalmente l’eccezione positiva della Fondazione Banco di Sardegna, che però non può far fronte a tutto. E’ evidentemente impossibile che la Regione finanzi ogni domanda di festival o di sagra di paese. La valutazione della qualità del lavoro svolto da ciascuno d’altra parte non è facile, solo uno sguardo storico sull’attività realizzata negli anni può consentire una valutazione corretta delle capacità artistiche e organizzative. Probabilmente la risposta si trova nelle scrivanie dei sindaci e nelle volontà delle amministrazioni. Solo le decisioni delle comunità locali, degli amministratori e soprattutto dei cittadini, possono stabilire se in questi tempi difficili si vuole continuare a scommettere sull’intrattenimento e sull’animazione culturale. I nostri paesi e città hanno bisogno come dell’aria dell’apertura a esperienze diverse. Per averla devono fare delle scelte, impegnarsi in prima persona, integrando i propri fondi col contributo dei privati e del volontariato comunitario.