L’acqua è moneta, secondo l’Ue
16 Dicembre 2012Riccardo Petrella*
Un’analisi del Piano d’azione per l’acqua approvato dalla Commissione europea. Tra l’idea teorica del «bene comune» a quella pratica che spinge a darle un valore economico
Il 14 novembre scorso la Commissione europea ha approvato il «Piano d’azione per la salvaguardia delle risorse d’acqua dell’Europa». Si tratta del documento politico più importante nel campo dell’acqua prodotto dall’organo esecutivo dell’Unione dopo l’adozione nel 2000 della Direttiva Quadro Europea sull’acqua. Esso è destinato ad influenzare significativamente il divenire dell’acqua nei paesi dell’Unione, nelle nostre regioni, città e villaggi. Il «Piano» mira ad «eliminare gli ostacoli» che riducono l’efficacia delle misure miranti alla salvaguardia delle risorse idriche». È centrato sul miglioramento dell’utilizzazione del suolo e il buon stato ecologico delle acque, la lotta contro l’inquinamento, l’utilizzazione razionale dell’acqua (ossia «gestione economica e finanziaria dell’acqua»), la vulnerabilità dell’Europa di fronte alle inondazioni e alle siccità, il miglioramento della «governance» dell’acqua, i problemi trasversali (per esempio, la promozione dei partenariati per l’innovazione tecnologica nel campo idrico), e, infine, gli aspetti globali (in verità, la Cenerentola del «Piano»).
La maggioranza dei diciotto obiettivi riguarda gli aspetti economici e finanziari. Fra le quattro modalità d’azione, un ruolo importante è affidato agli strumenti facoltativi (il campo dell’etichettaggio e della certificazione, ad esempio, è lasciato alla libertà degli operatori). L’obbligatorietà è invece imposta unicamente per quanto concerne il prezzo dell’acqua secondo il principio mercantile «chi consuma, paga». Un menu impressionante, certamente complesso e difficile da gestire e realizzare. La Commissione europea merita di essere congratulata per il lavoro, doveroso, svolto. Purtroppo, l’esecutivo europeo ha operato delle scelte piuttosto dogmatiche a livello dei principi fondatori. Conseguenza, le priorità d’azione e le proposte non sono all’altezza delle sfide. A causa delle sue scelte, la Commissione si è messa nell’incapacità di «vedere» al di là di quel che ha deciso di voler vedere. Il primo accecamento risulta dalla scelta fatta di considerare l’acqua unicamente come un «capitale naturale».
La Commissione non «vede» che l’acqua è anche, se non soprattutto, un «elemento vitale insostituibile», «fonte di vita», «bene sociale», «bene comune», «patrimonio» della vita di tutte le specie viventi microbiche, vegetali, animali, umane. L’uso esclusivo del concetto di «capitale naturale» non è innocente né casuale. Da quando il termine «capitale» è entrato in economia, esso è indissociabile dalle nozioni di «debito» (si pensi alla situazione attuale), di ricchezza, specie individuale, appropriabile, sfruttabile. Chiaramente, la Commissione ha deciso di iscrivere la salvaguardia dell’acqua nel campo ristretto e riduttore della gestione di un fattore produttivo di «ricchezza». Non per nulla, da anni la Commissione spinge con forza ad imporre la monetizzazione dell’acqua (« Valuing water»), cioè dare un valore economico (monetario e finanziario) all’acqua ( ai fiumi, alle falde, ai laghi…) e ai servizi ecoambientali che l’acqua «offre».
La Commissione afferma che monetizzare il capitale idrico ed i suoi servizi è diventata la base necessaria ed indispensabile per concepire e realizzare una politica europea solida ed efficace. Cosi, le analisi e proposte del «Piano» sono centrate sull’acqua in quanto «capitale stock» e «capitale flussi». L’importante diventa la contabilità idrica, il bilancio idrico, il deficit/surplus idrico. Il «Piano» s’interessa principalmente alle cifre. Nessuno nega che i numeri siano importanti e che i piani relativi alle masse d’acqua dei bacini idrografici siano assolutamente necessari, ma «contare» non è sufficiente. Il divenire dell’acqua e della vita non possono essere imprigionati nella gabbia delle cifre. Dietro i numeri sull’acqua ci sono gli esseri umani, i diritti e doveri (responsabilità), le relazioni sociali, i rapporti di forza il più sovente inuguali ed ingiusti, i desideri, gli immaginari collettivi.
Se la Commissione avesse «visto» l’acqua anche come «bene comune» avrebbe potuto dimostrare che la grande maggioranza delle acque d’Europa fa parte di bacini idrografici transnazionali e che, quindi, l’acqua è un esempio forte di «bene comune europeo».
La Commissione avrebbe potuto fondare la politica europea dell’acqua su questa evidenza e promuovere una nuova fase storica dell’integrazione europea, guidata dai principi di cooperazione/condivisione/coresponsabilità europea, come accadde per il carbone e l’acciaio sui quali nacque la prima «Comunità» europea con reali poteri sovranazionali. Il secondo accecamento è legato al dogma sul prezzo dell’acqua. L’unico momento «appassionato» nel testo della Commissione s’esprime quando si parla di tariffazione. Il prezzo dell’acqua è un atto di fede per la Commissione. Per essa, non v’è «utilizzazione razionale» dell’acqua in assenza di un prezzo dell’acqua fondato sul principio della ricuperazione dei costi totali di produzione, profitto compreso. Per la Commissione, l’art.9 della Direttiva Quadro Europea del 2000 costituisce l’architrave centrale del suo sistema di gestione e di «governance» dell’acqua.
Nella visione della Commissione, il rispetto dell’art.9 è addirittura una condizione per l’accesso ai Fondi europei (sviluppo rurale, fondi strutturali e di coesione, prestiti della Bei). La Commissione sapeva che nel giugno 2011 27 milioni d’Italiani avevano abrogato per via referendaria l’introduzione della «tariffa con profitto» nella legislazione italiana. La Commissione ha superbamente ignorato la volontà espressa dalla stragrande maggioranza dei cittadini di uno Stato membro dell’Unione. Il dogma di far pagare ai consumatori i costi dell’approvvigionamento d’acqua potabile è più forte della volontà dei cittadini. Per la Commissione, ogni acqua è una risorsa trasformata in prodotto o servizio, per cui il suo accesso ed uso devono essere pagati da coloro che la consumano e/o l’inquinano. Nessuna distinzione è fatta tra l’acqua per la vita alla quale ciascun essere umano ed ogni comunità umana ha diritto e l’acqua per produrre vegetali per generare biocarburanti o l’acqua per le piscine individuali.
Il «Piano» non fa alcun riferimento al diritto umano all’acqua potabile ed ai servizi igienico-sanitari come punto saliente delle priorità della politica europea dell’acqua. Per conseguenza, niente è detto del valore economico pubblico, non mercantile, delle attività di purificazione e della sicurezza idrica collettiva per la produzione locale di alimenti, una sicurezza idrica del tutto diversa da quella cui tengono molto Coca-Cola o Nestlé (proprietaria anche della San Pellegrino) per garantire la sopravvivenza del loro business (e profitti). L’acqua «risorsa naturale» è sottomessa alla stessa logica e vincoli del petrolio, del gas. Non per nulla il «Piano» si situa deliberatamente nell’ambito della strategia 2020 dell’Unione per «A Ressources Efficient Europe» e che la Commissione parla da anni di « Water Efficient Europe» . Coerentemente le proposte danno la priorità all’installazione obbligatoria dei contatori individuali in tutti i settori d’uso, al miglioramento dei metodi di valutazione dei costi/benefici e del sistema di commercio delle quote di acqua accordate ai vari utiizzatori.
La presa a carico, attraverso la fiscalità o altre fonti del denaro pubblico, dei costi relativi al diritto all’acqua individuale e collettivo, è semplicemente ignorata perché considerata una eresia. Infine, il terzo accecamento si manifesta sui famosi s takeholders , che la Commissione chiama «le parti interessate». Gli Stati membri e gli stakeholders sono i principali attori dell’applicazione e realizzazione del Piano. I cittadini europei non esistono, non hanno niente da dire né da fare riguardo la salvaguardia delle acque europee. Sappiamo che per la Commissione i proprietari terrieri, le associazioni dei consumatori, le industrie della carta , le imprese chimiche e farmaceutiche, le imprese grandi utilizzatrici d’acqua come Coca-Cola o Nestlé o le industrie estrattive, sono gli stakeholders da associare all’elaborazione e realizzazione della politica dell’acqua. Per questo la Commissione li ha invitati a far parte dei numerosi comitati consultivi creati nel settore.
Non succede lo stesso per le associazioni di quartiere, le Ong di difesa dei diritti umani e sociali, o i movimenti della società civile opposti alla mercificazione ed alla privatizzazione dell’acqua. È rarissimo che i loro rappresentanti siedano in detti comitati. Si tratta di un accecamento politico deliberato inaccettabile in una società che si proclama democratica e fa un gran parlare di partecipazione dei cittadini. La crisi di senso dell’Europa attuale è essenzialmente dovuta al fatto che, invece di credere nella «res publica», i dirigenti europei hanno creduto unicamente nei dogmi della Teologia Universale Capitalista e nel primato degli interessi strettamente economici e corporativi dei poteri forti.
*Il Manifesto 13 dicembre 2012