La terra sarda, buona per i liquami bovini

1 Gennaio 2013
Stefano Deliperi
Qualche anno fa c’era la moda dei “ventoloni” eolici. Centinaia e centinaia di pale eoliche o aerogeneratori che dir si voglia che imprenditori d’ogni risma volevano disseminare per ogni dove in Sardegna, così come gran parte del Mezzogiorno d’Italia. La finalità era ed è quella sì di produrre energia elettrica, ma soprattutto quella di lucrare i certificati verdi, la chiave d’accesso al mercato dell’energia liberalizzato in Italia dal 1999.  Ogni produttore di energia deve dimostrare di produrne almeno una percentuale (il 2%, incrementato dello 0,35% annuo) da fonti rinnovabili, testimoniata da certificati verdi. In sostanza, sono  una forma di incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Sono titoli negoziabili, il cui utilizzo è diffuso in molti stati come ad esempio nei Paesi Bassi, Svezia, U.K. e alcuni stati U.S.A.
Si tratta di certificati che corrispondono ad una certa quantità di emissioni di CO2: se un impianto produce energia emettendo meno CO2 di quanto avrebbe fatto un impianto alimentato con fonti fossili (petrolio, gas naturale, carbone ecc.) perché “da fonti rinnovabili”, il gestore ottiene dei certificati verdi che può rivendere (a prezzi di mercato) a industrie o attività che sono obbligate a produrre una quota di energia mediante fonti rinnovabili ma non lo fanno autonomamente.
In Italia i certificati verdi sono emessi dal gestore della rete elettrica nazionale GSE (Gestore Servizi Elettrici) su richiesta dei produttori di energia da fonti rinnovabili.
Al dunque, però, rischiano di avere ben poco di “eco-sostenibile”, soprattutto quando il territorio anche di valore ambientale o agricolo viene “massacrato” da migliaia di “ventoloni”.
Basti pensare a qualche “numero”: attualmente in Sardegna vi sono 27 centrali eoliche (453 MW di potenza), se fossero realizzate le altre 34 in attesa di autorizzazione, si giungerebbe a 61 parchi eolici con ben 1.265 MW di potenza.     Basti pensare che oggi l’Isola è del tutto autonoma rispetto alla rete nazionale. Puo contare sulla potenza installata di circa 2.200 MW, pur impiegandone ogni giorno di solito 1.730 (e la notte solo 1.300). Con il  potenziamento dei trasporti via cavo (SAPEI e SACOI) fra Sardegna e la Penisola, non ne potranno esser esportati più di 1.000 MW.
Chi ci guadagna, quindi, nel tenere immagazzinati altri 800 MW originati dall’eolico? Certo non la Collettività.
Ma questi ultimi sono però i mesi durante i quali piovono nelle campagne sarde decine e decine di nuove “benedizioni eco-sostenibili”, le serre fotovoltaiche (non molte, visti gli investimenti necessari) e, soprattutto, le centrali a biomassa da 999 kWe, 1 in meno della soglia oltre la quale devono esser preliminarmente svolti i procedimenti di valutazione d’impatto sull’ambiente.
Sono queste ultime i nuovi “elementi” del paesaggio agricolo sardo.
Ogni impianto prevede l’utilizzo in media di 20.200 tonnellate annue di biomassa (insilato di mais, triticale, sorgo) e soprattutto liquame bovino, per circa 60 tonnellate giornaliere, con una produzione di biogas di 3,6 milioni di metri cubi annui e energia elettrica prodotta pari a 7 milioni di kWn annui.  Quantomeno un sensibile traffico di camion e una notevole puzza, non poco per la zona vicina.
Vengono autorizzate – se non vi sono particolari altri vincoli ambientali – con una “banale” autorizzazione unica (art. 12 del decreto legislativo n. 387/2003 e s.m.i., leggi regionali n. 3/2009, n. 5/2009) per la costruzione e l’esercizio dell’impianto per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
E sono gli stessi Servizi della Regione autonoma della Sardegna a infischiarsene della normativa regionale sulla tutela del paesaggio agricolo: infatti, è pur vero che tali impianti di produzione di energia elettrica “possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici” (art. 12, comma 7°, del decreto legislativo n. 387/2003 e s.m.i.), tuttavia, secondo l’art. 13 bis della legge regionale n. 4/2009 e s.m.i., l’art. 3 del D.P.G.R.  3 agosto 1994 , n. 228 (direttive per le zone agricole, criteri per l’edificazione nelle zone agricole) e l’indirizzo giurisprudenziale costante, nelle zone agricole “E” degli strumenti urbanistici comunali, possono essere autorizzati soltanto interventi relativi ad attività agricole e/o strettamente connesse (vds. per tutti Cass. pen., sez. III, 9 marzo 2012, n. 9369), non attività di produzione energetica di tipo industriale – come queste – slegata da attività agricole in esercizio nel sito.
Sembrerebbe pertanto logica la sola presenza di impianti simili connessa ad aziende agricole presenti nell’area.  Quasi mai è così, però.  E’ pura speculazione.
E la classe politica sarda?  A parte qualche rara eccezione, come l’indipendentista Claudia Zuncheddu, c’è poco o nulla di positivo, quando non si battono per le ragioni degli industriali, come Sergio Milia, U.d.C., assessore regionale della pubblica istruzione e, in particolare, avvocato difensore del titolare delle centrali a biomassa di Tuttubella e Campanedda, nell’agro sassarese, recentemente sequestrate e dissequestrate dalla magistratura.
Buon anno nuovo.

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