Bolivia: una Costituzione faticosamente in marcia
1 Gennaio 2013Emilia Giorgetti
L’aereo da Bogotà atterra nella notte sulla pista di El Alto, 4100 m di quota, nel cuore della puna battuta dal vento. In una spaccatura di questo immenso altopiano gli spagnoli fondarono La Paz, da dove avevano accesso alle ricchezze che alimentarono la loro potenza per 3 secoli. Da El Alto, la strada scende con ripidi tornanti all’interno del canyon fino al Prado, la principale e unica arteria della città, costruita sul letto di un fiume ed essa stessa fiume di automezzi e folla chiassosa e indaffarata: una piacevole confusione sudamericana alla quale si mescolano i gonnelloni a balze e le bombette delle donne aymara. La Paz si estende sul fondo del canyon, dove sono stati costruiti i quartieri dei ricchi; sulle pareti, dove grappoli di rifugi pericolanti di mattoni crudi e fango ad ogni stagione delle piogge lottano per restare aggrappati alla roccia; sul pianoro soprastante, dove cresce a vista d’occhio il barrio della comunità aymara urbanizzata. Poco lontano, nel penitenziario di Chonchocoro, l’ex dittatore García Meza sconta la massima pena prevista dal codice boliviano, 30 anni, condividendo il proprio destino con quello di centinaia di detenuti comuni, in continua lotta contro il freddo che gela le ossa e la carenza di ossigeno che, a poco a poco, consuma i polmoni e brucia il cervello. Il suo colpo di Stato, nel 1980, fu funzionale al ritorno al potere del Generale Banzer, pedina chiave del Plan Cóndor: permise l’eliminazione fisica degli avversari che stavano istruendo il processo contro di lui, la distruzione delle prove che lo avrebbero condannato e la sua completa riabilitazione. Pochi anni dopo, Banzer parteciperà alle competizioni elettorali della Bolivia democratica e sarà addirittura eletto presidente nel 1997, con l’appoggio del Movimento della Sinistra Rivoluzionaria.
Da La Paz si diramano le poche strade che raggiungono i principali centri del paese. Percorsi quasi sempre di terra, accidentati e tortuosi, che solo negli ultimi anni il governo di Evo Morales ha cominciato ad asfaltare, reinvestendo nella rete viaria parte dei profitti del petrolio e del gas recentemente nazionalizzati. E’ questo uno dei frutti della Costituzione del 2009, nata sulle macerie di decenni di dittature e colpi di stato militari e dalla speranza di riscatto alimentata delle rivolte dell’acqua (2000) e del gas (2003). La Repubblica Plurinazionale Comunitaria di Bolivia persegue il vivir bien, declinato in tutti gli idiomi indigeni che, oltre al castigliano, hanno dignità di lingua ufficiale. E il vivir bien si consegue attraverso il rispetto dei diritti e la condivisione dei beni comuni: le ricchezze del suolo e del sottosuolo, le culture e i saperi ancestrali, l’aria, l’acqua, il paesaggio, la biodiversità.
Dopo una lunga corsa attraverso l’altopiano gelato, il pullman in partenza da La Paz raggiunge Uyuni alle prime luci dell’alba. Uyuni è cittadina di frontiera: oltre l’immenso deserto di sale, il Cile, il contrabbando di auto rubate, di coca e di carburante, attraverso i passi andini a 5000 m di quota. Le strade sono polverose, battute dal vento freddo e dalla luce di un sole che acceca, ma non scalda. Il Salar rappresenta una delle maggiori ricchezze della Bolivia: sotto la sua spessa crosta di sale nasconde infatti il più grande giacimento conosciuto di litio, un metallo strategico, che potrebbe decidere, nel bene e nel male, le sorti dell’intero paese. Racconta Cipriano, per metà guida turistica al Salar e per metà minatore, che nel passato il governo aveva concesso lo sfruttamento del litio ad una compagnia straniera. Ciò avrebbe determinato la perdita di un ecosistema unico al mondo. La sollevazione della popolazione locale, culminata con il rogo della bandiera a stelle e strisce, e l’appoggio di importanti personalità straniere, costrinsero il governo a rivedere i suoi piani. Adesso il litio è estratto solo in una piccolissima miniera statale, ai margini del Salar, con tutti gli accorgimenti necessari perché una importante risorsa non rinnovabile sia preservata a beneficio delle generazioni future.
200 Km di strada tortuosa separano Uyuni da Potosì, in una successione senza respiro di paesaggi differenti: lame di roccia affilata di ogni colore, canyon percorsi da fiumi dai riflessi metallici, vallate racchiuse da altissime dune di sabbia bianca, pianori costellati da lama, mucche e vigogne al pascolo. La vicinanza di Potosì è annunciata dalla prima, inquietante visione del Cerro Rico, un gigantesco cono rosseggiante che emerge dall’altopiano e incombe sulla città. La leggenda narra che un pastore, accampatosi una notte sulla montagna, abbia acceso un grande fuoco per scaldarsi. Al mattino, tra le braci, luccicava l’argento. Da quel momento iniziò lo sfruttamento intensivo del giacimento, attorno al quale gli spagnoli costruirono la città più opulenta del loro impero e che, dopo 500 anni, continua ad alimentarne l’economia. C’è chi dice che ormai sia completamente svuotato, tanti sono ormai i pozzi, cunicoli e percorsi scavati dentro il suo ventre e che un giorno o l’altro collasserà su se stesso, travolgendo l’intera città. Intanto i minatori, riuniti in cooperative, continuano a sfidare la montagna, che considerano la tana del diavolo, el Tio. Entrano senza nessuna protezione con un casco, una lampada e un piccone, con la speranza di incontrare la vena che li renderà ricchi. E muoiono, spesso. Per questo, prima di entrare, effettuano i loro riti propiziatori a el Tio, offrendogli tabacco, alcool e foglie di coca.
I minatori di Potosì e la popolazione di Uyuni sono il simbolo della Bolivia di oggi, sospesa tra la sua storia coloniale basata su una economia di tipo estrattivo e semischiavista e il tentativo di riprendersi il futuro senza rinnegare la propria cultura ancestrale, basata sulla condivisione delle risorse e il rispetto della madre terra, la Pachamama. Oggi, per la prima volta nella storia post-coloniale, sia pur con luci ed ombre, il contadino indigeno Evo Morales è alla guida di un paese dove gli indigeni, pur rappresentando l’80% della popolazione, sono stati da sempre destinati all’oscurità dei pozzi profondi delle miniere dell’altipiano o alla servitù del latifondo delle regioni temperate e amazzoniche. Grazie al suo impegno e alle royalties del gas e del petrolio, le vecchie mulattiere stanno pian piano trasformandosi in piste percorribili da fuoristrada e, con queste, nei villaggi più remoti che accettano di uscire dal secolare isolamento, arrivano, insieme al diritto di cittadinanza, l’elettricità, il presidio medico, la scuola, il campo sportivo e la chiesa. Un tentativo di trasformare in risorsa collettiva il patrimonio che ancora si nasconde nel sottosuolo del paese e che negli ultimi cinque secoli ne è stato la maledizione.
Ma la sfida per la nuova Bolivia comincia adesso. L’abolizione del latifondo, la gestione cooperativa delle miniere, la proclamazione dei diritti dei nativi sulle terre ancestrali e il riconoscimento della dignità indigena non bastano a costruire un paese nuovo. Le minacce interne ed esterne crescono. La polizia ha scioperato per una settimana nel giugno scorso, gettando la capitale nel caos. Le proteste e i blocchi stradali sono all’ordine del giorno. Il presidente è ostaggio della sua base elettorale, i coltivatori di coca, e non riesce, o non vuole, dialogare con gli avversari. Dai piani di modernizzazione del paese sono cancellate le province a lui ostili. La popolazione delle città si sente abbandonata, la borghesia intellettuale disprezzata e il grande capitale è sempre in agguato. Gli indigeni del Tipnis hanno marciato su La Paz per protestare contro la costruzione di una grande strada che attraverserà i loro territori. Una carovana di uomini, donne e bambini guaraní è salita a piedi dalle selve umide dell’Amazzonia fino all’altopiano, camminando per giorni con poco cibo, sfidando il freddo e la progressiva mancanza di ossigeno. Si è assistito al drammatico braccio di ferro tra il governo, che afferma di voler portare la modernità in una delle zone più depresse del paese, e le popolazioni interessate, secondo le quali la grande via di comunicazione servirà solo a velocizzare il trasferimento della coca verso i porti brasiliani. Dietro a tutto, forse, i grandi potentati economici. Il presidente indigeno sfiduciato dai suoi stessi indigeni? Un boccone ghiottissimo per chi spera di riportare indietro le lancette della storia.
12 Gennaio 2013 alle 21:16
Grazie Emilia, di farci partecipi della tua marcia che va a disvelare mondi di ingiustizia sproporzionati, come quelle montagne che non osi chiamare belle perchè intrise di dolore .
Buoni viaggi Lella