Per non dimenticare
1 Febbraio 2013Alfonso Stiglitz
In questi giorni dedicati alla memoria ho partecipato, in qualità di esponente del Centro di documentazione della memoria “Cosimo Orrù” del Comune di San Vero Milis, ad alcune iniziative che mi hanno fornito lo spunto per alcune riflessioni.
Al Lazzaretto di Cagliari, una splendida mostra di Stefano Obino, dal titolo “quaderni di viaggio”, ha avuto un momento di confronto molto partecipato sulla deportazione in Sardegna, con la sorpresa di chi apprendeva i nomi e le storie dei nostri conterranei inghiottiti da questo sistema.
A Nurallao, l’incontro tra gli alunni delle scuole del Sarcidano che hanno raccontato un pezzo della storia delle deportazioni, con la quale si sono identificati, cui si è aggiunto il racconto commosso su un nonno finito nei campi.
A San Vero Milis, con la consegna di una medaglia di merito in memoria di uno dei deportati militari, Antonio Corona, il cui ricordo sta riaffiorando alla memoria dei compaesani dopo anni di oblio.
Le tre iniziative sono accomunate dalla centralità della Sardegna; è ormai un fatto acquisito che la nostra isola sia parte integrante di quel fenomeno chiamato, riduttivamente, deportazione: la Sardegna ha perso la sua innocenza.
A differenza di quando, nel 2000, iniziammo a ricordare questa data del 27 gennaio, la deportazione degli “impuri” non è più un fatto avvenuto lontano in altri luoghi, al cui ricordo partecipiamo per solidarietà; è qualcosa che ci ha riguardato da vicino, come vittime: deportati politici, militari e, anche, ebrei, cosa quest’ultima che stupisce nei meno informati. Sempre più stanno emergendo i nomi dei tanti sardi finiti nei campi; il meritorio lavoro di Aldo Borghesi, dell’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia, ci ha dato molti di questi nomi, alcuni morti, altri tornati in silenzio, incapaci di “raccontare”. Questa storia ci ha riguardato come carnefici, qualcuno di essi era sardo, uno per tutti Lino Businco di cui ho già raccontato in queste pagine, attivi nella formazione di quell’universo concentrazionario che inghiottì tanti esseri umani. Infine ci siamo come luogo di deportazione, i rom nel Sarrabus e gli omosessuali nelle miniere del Sulcis. La Sardegna c’era, partecipe della storia e, non sempre, di quella più bella.
Oggi, a questa difficile ma fondamentale azione di recupero della memoria si affianca un problema, subdolo ma pericoloso, quello della storicizzazione, che è cosa diversa dal fare storia. “Erano altri tempi, fortunatamente finiti”: non è vero. Non solo perché in tante parti del mondo sono attive le deportazioni e i genocidi, ma anche perché da noi c’è un crescente senso di razzismo. Non mi riferisco semplicemente ai cori negli stadi o a qualche scritta, fosse solo quello saremmo davanti a degli scalmanati idioti. Ma al resto della società dai dirigenti del calcio (società sportive, federazione, forze dell’ordine) che quei cori non sentono o minimizzano, intimamente convinti che siano altre le cose importanti, agli autorevoli esponenti politici, vedi Berlusconi, alla partecipazione alle elezioni di formazioni razziste (Casa Pound o Alba Dorata, ma aggiungerei anche la Lega), al quotidiano stillicidio della carta stampata. Ricordiamo tutti l’ignobile campagna dell’Unione Sarda, il più diffuso quotidiano dell’isola, sui rom di Cagliari accompagnata, bisogna dirlo, dall’accettazione spesso partecipe di tanti lettori e di tanta parte dell’opinione pubblica. O in modo più subdolo, ma segno di un razzismo ormai interiorizzato, dei grandi titoli stile: infermiera uruguayana ruba medicinali per drogarsi; infermiera che, peraltro, vive in Sardegna da decenni. In altre parole quel senso di divisione tra noi e loro; e cosa importa se quei loro vivono tra noi, talvolta da sempre; restano comunque loro.
Quando vennero proclamate le leggi razziali, nel 1938, Emilio Lussu rispose che la proclamazione di arianità per le genti della penisola non ci riguardava, essendo noi un’isola. Sarebbe bastato già questo per ridicolizzare quelle pretese. Ma andò oltre quando reclamò: noi sardi siamo tutti semiti. Se ci pensate è lo stesso gesto che compì, in quegli anni, il re di Danimarca quando si mise la stella gialla, per proclamarsi anche lui, ebreo, o la stessa frase pronunciata da Kennedy a Berlino: ich bin ein Berliner. In altre parole è la capacità di immedesimarsi negli altri, nell’essere gli altri e spezzare quel muro noi/loro. Per questo penso che ogni tanto, non fosse altro che una volta all’anno, dovremo avere il coraggio di proclamarci tutti ebrei, rom, omosessuali, testimoni di geova, disabili, malati di mente, antifascisti, asociali, gente tra gli altri.
Per non dimenticare.
8 Febbraio 2013 alle 14:03
E’ bene non dimenticare: ne uccide, da sempre, più l’oblio che il ricordo, anche oggi, pure qui da noi.
Bene è non sottovalutare, ancor più in questi tempi di paure e bisogni, di facili, ovvie e pretestuose, derive identitarie.
Meglio non abbassare la guardia, proprio oggi che il razzismo si fa più fine, più aggiornato, meno natura e più cultura; alla maniera di “noi” occidentali moderni e post-moderni sempre meglio degli “altri” in tutto, mai peggio, o semplicemente diversi per modi di vivere.
Doveroso, forse, chiederci se non sia il caso, finalmente, di provare a frantumare questo benedetto “noi”. Chissà se, dopo tutto, non sia questo l’unico modo possibile – anche a costo di provare un po’ di vertigine e qualche spiacevole sorpresa – per assaporare pienamente l’immenso tesoro della diversità umana, di cui ognuno di noi, nel suo piccolo, ne é prodotto e parte, unici e irripetibili; l’intrepido piacere di annegare in quegli infiniti mondi e modi dell’”universo cultura”, che è il nostro essere uomini e che, solo, ci fa altro dalle bestie. Almeno quando ne siamo consapevoli, e solo se agiamo di conseguenza, anche mediante la memoria.