Mettersi in discussione

1 Ottobre 2007

Gianluca Scroccu

La prospettiva dell’unità della sinistra italiana è indubbiamente affascinante ma anche carica di dubbi e difficoltà. Perché, dobbiamo riconoscerlo, la sinistra italiana si è sempre caratterizzata, durante tutto il Novecento, per la sua tendenza a dividersi o ad unirsi esclusivamente sulla base dell’avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. Oggi il Paese è attraversato da un vuoto di senso civico e di socialità, determinato da una progressiva desertificazione della politica e della società iniziata negli anni Ottanta, per cui i cittadini sono stati abituati a preferire un messaggio semplificato e i discorsi di corto respiro imposti dal sistema mediatico. La sinistra che si vuole unire deve rispondere con coraggio, determinazione e senza supponenze intellettuali alla dinamiche della realtà nazionale, immettendo nel discorso pubblico valori tali che permettano realmente di far comprendere come si stia facendo un salto di qualità. Rinnovamento che non potrà realizzarsi se si decidesse di cadere nella logica della mera fusione tra partiti (del resto, c’era un motivo se chi scrive era iscritto ai DS e non a Rifondazione e viceversa, così come se il cittadino appartenente alla “sinistra diffusa” non si sentiva stimolato dal prendere tessere dei DS, del PdCI, di Rifondazione, dello SDI o dei Verdi). Ecco perché è necessario muoversi su un altro asse che tenga conto delle modificazioni della realtà e, credo, delle aspettative e delle richieste che ci vengono dai cittadini che si riconoscono nelle istanze progressiste. Se questo processo unitario non dovesse essere costruito con senso di responsabilità e la massima trasparenza, lo svuotamento dei processi democratici e l’assenza di buona politica favoriranno il decisionismo, la concentrazione del potere, la semplificazione. Del resto non è forse questa la crisi principale della sinistra italiana e cioè quella di aver rinunciato, a favore di parole come efficientismo e governabilità fine a se stessa, ad un pensiero forte ed autonomo capace di coniugare capacità riformatrice nel governo e un costante pensiero critico pronto ad individuare le gravi sperequazioni e le rendite di posizione che rendono il mondo così diseguale? L’obiettivo deve essere quello di costruire insieme, attraverso la contaminazione e l’interdipendenza, una sinistra che non stia sulla difensiva, ma che sia capace di confrontarsi con la modernità senza per questo subirla, riuscendo ad unire una vocazione di governo (che rifugga fermamente da ogni radicalismo senza politica) ad uno spirito critico e non notarile rispetto, ad esempio, alle disuguaglianze prodotte da questo modello antidemocratico di globalizzazione. Iniziamo, ad esempio, a fare chiarezza sulla eredità e i riferimenti culturali di ciascuno (i valori, insegna Marx, si giudicano non da quello che astrattamente propongono ma da ciò che concretamente riescono ad attuare) e proviamo a vedere quali sono quelli che meglio possono dare risposte ai problemi concreti dei cittadini, su scala globale e locale, a partire dalle grandi disuguaglianze che rappresentano un freno allo sviluppo e alla mobilità sociale (quattro su tutti: la precarietà del lavoro; la realizzazione della piena parità di genere in politica, in famiglia e nel contesto lavorativo; la ricerca di un nuovo modello di sviluppo ecosostenibile; la conoscenza e la formazione continua in tutte le fasi della vita, nel lavoro e nel privato). Pensiamo solo alla Sardegna: quanto ci servirebbe, specie in questa fase di fibrillazione tra primarie del Partito Democratico e referendum sulla Statutaria, una nuova sinistra capace di coniugare capacità di governo, visione critica della società, completa trasparenza e democrazia interna, e soprattutto l’ascolto umile e appassionato dei problemi quotidiani con cui si confrontano i sardi, stanchi di essere cercati solo in prossimità delle elezioni? Possibile che non si capisca come la cittadinanza invochi uno scatto deciso, un elemento di freschezza e di reale novità che faccia uscire dal chiacchiericcio delle dichiarazioni politiche del quotidiano? C’è una richiesta di gestire in modo diverso la politica e di farlo attraverso lo stravolgimento radicale di norme paludate e sempre uguali, a favore di una scelta più democratica dei temi in agenda che non si faccia soffocare dalle esigenze e dal realismo esasperato del dirigente o del gruppo di potere di turno, rispondendo così concretamente alle esigenze della collettività (tematiche su cui hanno riflettuto ultimamente studiosi come Robert Putnam e Paul Ginsborg). Oggi più che mai assistiamo, infatti, al rischio fortissimo che la dimensione istituzionale schiacci la rappresentanza e la partecipazione; una patologia che attraversa in maniera trasversale destra e sinistra e che isterilisce la cultura politica dei partiti che sono andati assumendo sempre più la fisionomia di macchine di potere finalizzate alla partecipazione alle competizioni elettorali. Siamo in sostanza tornati ad una fase politica che presenta aspetti molto simili a quella notabilare del periodo postunitario; le stesse categorie sociali rappresentate in Parlamento e nelle istituzioni locali sembrano privilegiare determinate professioni o figure (vedi imprenditori) capaci di avere risorse in grado di essere spese per accumulare consensi. Spariscono, o quasi, dalle sedi istituzionali impiegati, insegnanti, operai, piccoli commercianti e torna prepotentemente di attualità la questione morale in quanto l’elezione può diventare una redditizia alternativa alla dura e faticosa ricerca di un posto di lavoro, con la conseguenza che per conservare la poltrona si ricorre spesso all’illegalità, con la creazione di un circuito perverso di corruzione e favoritismi clientelari. Tutte variabili che ci fanno ipotizzare che quello della costruzione di una nuova sinistra unita non sarà un impegno facile; ecco perché sono necessari da subito senso di responsabilità, ascolto e volontà di mettersi tutti in discussione alla radice per costruire una casa che sia veramente comune.

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