C’è un futuro per il sindacato?
7 Aprile 2013Francesco Piccioni
Solo i complici non si pongono domande sul senso del proprio “mestiere”, qualunque esso sia. Specie quando i tempi mutano e i pilastri su cui si reggeva un certo “fare” scompaiono, più o meno velocemente, lasciandoci ancora una volta privi di certezze reperibili nell’esperienza individuale. Che è breve, labile, evanescente quanto la nostra mutevole coscienza. Il movimento operaio ha subito la “botta” del 1989 ben al di là dei confini delle sole organizzazioni “vicine” all’esperienza del socialismo reale: “non ci sono più due possibili punti di vista diversi, e la partita non si è certo chiusa in pareggio”. È rimasto un solo punto di vista: quello dell’impresa, che nel frattempo è diventata – almeno come comportamenti possibili – globale, a-nazionale, con prospettive fuori da ogni antico patto sociale e costituzionale.
Il sindacato, dunque, non può evitare di interrogarsi sul senso della propria stessa esistenza e attività. Ma nella Cgil queste domande vengono poste con la necessaria durezza, al momento, soltanto dalla sua parte “eretica”: la maggioranza della Fiom, gli esponenti – piuttosto bistrattati, all’interno di Corso Italia – dell’area programmatica “La Cgil che vorrei”. Non è per caso che la domanda da centomila pistole “C’è un futuro per il sindacato? Quale futuro?” sia stata posta come titolo della giornata di seminario dedicata al decennale della scomparsa di Claudio Sabattini, storico “eretico non scismatico” della Cgil in versione conflittuale, classista, ma anche capace di pilotare a livello internazionale il passaggio altrimenti traumatico dalla Federazione Sindacale Mondiale (comunista, spesso in versione filo-sovietica) alla Confederazione europea (Ces).
Questa relazione prende in esame soltanto la tavola rotonda pomeridiana e non le relazioni mattutine semplicemente per gli impegni del vostro cronista volontario. E quindi può essere ingannevole l’impressione che la discussione abbia toccato molti e rilevanti “effetti” – sindacali, legislativi, politici, costituzionali – dell’offensiva capitalistica contro il lavoro e la sua rappresentanza sindacale, iniziata ben prima che la crisi esplodesse accelerandone o semmai incrudendone i passaggi in corso d’opera. Ma che rimanga per ora inevasa l’analisi – e quindi la visione prospettica, centrale anche al livello delle decisioni operative, organizzative, rivendicative – di una fase che non si preannuncia affato conclusa, né a breve né a medio termine vicina all’assestamento.
Ciò detto, la ricostruzione dei passaggi con cui il sindacato italiano è giunto a questo punto, senza alcuna capacità reattiva adeguata alla sfida, è apparsa spesso impietosa. Tanto più rilevante, questa spietatezza, se si tiene conto della presenza tra i discussants di ben due ex segretari generali della Cgil (per quanto diversi, come Pizzinato e Cofferati), di Maurizio Landini, carismatico segretario della Fiom, come del suo predecessore Gianni Rinaldini. Ma anche di quel Tiziano Treu che porta l’onta d’aver rotto le dighe con la legalizzazione della precarietà – nel 1997 – senza che tutto il centrosinistra d’allora, Rifondazione bertinottiana compresa, alzasse neppure un sopracciglio di disapprovazione. O di Umberto Romagnoli, severo critico – in punta di Costituzione – dei comportamenti storici del sindacato che si era sempre opposto alla legiferazione di quanto previsto dall’art. 39 della Carta. E che ora, con il Marchionne di Pomigliano, ne paga le conseguenze.
La dimensione epocale del problema emerge con chiarezza da molti parametri completamente saltati. Il sindacato del ‘900 viveva nella certezza della crescita continua, con solo brevi momenti di inceppamento e trauma; era quindi tranquillamente “nazionale”, così come il quadro di regole entro cui si muoveva, la dimensione stessa delle imprese con cui aveva a che fare, e le “vicinanze” con questo o quel partito. All’interno di una preoccupazione strategica fondamentalmente di tipo “redistributivo” (“l’Italia si arricchiesce, qual’è la parrte che va al lavoro?”).
Nell’Europa in crisi che va dissolvendo il suo “modello sociale”, quindi che il ruolo della mediazione, “resistono” meglio quei sindacati che sono diventati “centri di servizio”, accentuando il profilo “istituzionale”, una partecipazione per scopi limitati ma diffusa, un sistema contrattuale coordinato; ma anche attivi in paesi in cui il welfare è ancora consistente e i “partiti amici” li usano come consolidati bacini di consenso. Insomma, il “grande Nord”, che meglio ha sfruttato i vantaggi dell’euro e che soltanto ora comincia a sperimentare – in termini di minori esportazioni verso i partner continentali in grave crisi – il risvolto negativo del proprio concetto di “austerità” applicato sulla pelle altrui. Treu indicherebbe istintivamente questa come la “naturale evoluzione” anche della Cgil, se solo quegli esempi fossero solidi. Ma non lo sono affatto. E quindi non gli resta che mettere in alternativa due ipotesi di trasformazione egualmente snaturanti: “puntare sui nuovi soggetti (“gli sfigati”, detto letteralmente, senza alcuna specializzazione, ma anche “le alte professionalità” che si sentono più a proprio agio con un potere contrattuale individuale); oppure “puntare su altre identità” (anche qui, citando letteralmente, “razze, etnie, comunità, opinioni”). Ma in ogni caso in una dimensione “internazionale, europea”, con forti “connotazioni istituzionali”. Dentro un capitalismo che “non funziona più tanto bene” e che trova normale che a pagare sia sempre e soltanto il lavoro.
La frusta critica di Romagnoli riavvolge il nastro degli errori a partire dall’incomprensione totale del vero senso dell’art. 39 della Costituzione. Che, senza una legislazione articolata conseguente, ha fatto del sindacato un “soggetto privato collettivo con poteri legislativi – tramite la contrattazione nazionale – validi erga omnes”, in cambio della sola condizione di “essere, al proprio interno, un soggetto democratico”. Non serve esser stati sindacalisti di lungo corso per sapere che questa seconda condizione è stata sempre alquanto aleatoria, il punto fondamentale è infatti lo scarto irrimediabile tra questo “ruolo legislativo” di chi si presenta come “rappresentante dei lavoratori” e l’assenza di garanzie per i “rappresentati”. Ovvero i singoli lavoratori, che sono cittadini titolari di sovranità nella polis, mentre in tale quadro restano dei sudditi sui posti di lavoro. Uno scarto che il sindacato ha creduto di poter coprire indefinitamente, mantenendosi “autonomo” sia dal datore di lavoro (nel migliore dei casi) che dai “rappresentati” (iscritti o meno). Ma che è saltato come una bomba quando Sergio Marchionne, a Pomigliano e poi in altri stabilimenti, ha preteso un “referendum” con la pistola alla tempia – “o mi dite sì, oppure me ne vado” – che eliminava di fatto il ruolo del sindacato (la firma dei “complici” veniva pretesa per rispettare una parvenza di forme e far meglio fuori la Fiom dalle sue fabbriche, non perché fosse decisiva).
Sergio Cofferati prova a dare una risposta positiva (“sì”) alla domanda sulla possibilità di un futuro per il sindacato (“c’è così tanto lavoro non rappresentato”), mentre è molto più cauto nel rispondere a “quale sindacato?”. I vari modelli di rappresentanza esistenti in Europa sono tutti rispondenti a diverse configurazioni sociali e diverse culture; soprattutto sono tutti egualmente in tensione, chi più chi meno. E d’altra parte l’Unione europea sta premendo ovunque – non solo in Italia o Grecia – in modo forsennato per “riforme strutturali” sintetizzabili i due sole misure: distruzione delle regole a tutela del “mercato del lavoro” e smantellamento del welfare residuo. In alcuni paesi vengono applicati contratti “stile Bolkestein”, con lavoratori europei trattati secondo le regole contrattuali vigenti in paesi lontanissimi, dove imprese nazionali hanno stabilito semplicemente delle filiali che poi “assumono” di nuovo sul Vecchio Continente. L’esempio di Amazon in Germania, con tanto di kapò in divisa neonazi, è un simbolo, più che un esempio diretto. I diversi “punti di possibile ripartenza” che Cofferati individua sono però abbastanza ipotetici, se non fragili: a) contratto unico dell’industria, sia pure non inteso come “pura sommatoria” di categorie altrimenti troppo deboli ognun per sé; b) proiezione europea, con tanto di “cessione di sovranità” anche sindacale verso forme organizzative pluri- o sovra-nazionali (al momento da riguardare con un brivido per la schiena…); c) una legge sulla rappresentanza sindacale (regole, poteri, democrazia, referendum su contratti e accordi) per dirimere ogni contrasto tra le diverse organizzazioni e tra queste e i lavoratori.
È Rinaldini a dover metter sul piatto in tutta la sua crudezza i termini di una visione più ampia e, appunto, “epocale”. In grande misura irrimediabile. Si parte dal fatto che la crisi del sindacato è una semplice parte della “crisi di tutte le forme della rappresentanza”, compresa Confindustria e senza nominare – per carità di patria – i partiti politici. Si passa per una critica senza sconti all’attuale segreteria della Cgil, peraltro non nominata, che punta ancora tutto sulla ricucitura dei rapporti con Cisl e Uil mentre andrebbe semmai registrato lo scarto assoluto “tra i processi sociali e i rapporti tra le organizzazioni”, con le seconde ad occuparsi di problemi che non riguardano gli interessi reali dei soggetti macinati dalla crisi e dalle “destrutturazioni”. L’esempio tedesco, dove tutti ancora guardano all’IgMetall che siede nel consiglio di amministrazione di Volkswagen e spunta aumenti salariali inconcepibili in Italia, è particolarmente indicativo. “A ogni rinnovo contrattuale aumentano le imprese che escono dalla Confindustria per non applicare quegli accordi, tanto che è nata una seconda associazione imprenditoriale che programmaticamente non ne tiene conto”.
L’Italia presenta livelli di arretramento difficilmente quantificabili, che peggiorano continuamente senza che il sindacato confederale faccia assolutamente nulla per contrastarli o almeno marcare il proprio dissenso radicale. Il punto di svolta viene da Rinaldini individuato nell’”accordo separato sul modello contrattuale” del 2009, tra governo Berlusconi, Confindustria, Cisl e Uil. Quello era un accordo sulle regole, “il cuore delle relazioni industriali”. E lì la Cgil di Epifani non ha reagito, non ha fatto nulla. “Aver mollato sulla questione della democrazia è stato fatale; da quel momento c’è stato un incrocio devastante tra legislazione pro-imprese e accordi separati sui singoli contratti”. Non c’è molto ottimismo sulle capacità di resipiscenza della Cgil. “Le grandi burocrazie, di fronte alle difficoltà, istintivamente vanno verso l’autoconservazione, e sostituiscono la ridotta autorevolezza dei gruppi dirigenti con una loro maggiore autorità”. Eppure da qui, ostinatamente, si vuol ripartire; da “eretici non scismatici” (ma purtroppo commissariabili ed espellibili), per contrastare “il trasferimento del sistema di relazioni sociali Usa nell’Unione europea”. Che costringe tutti a prendere in esame due sole vie evolutive per il sindacato: quello “di servizio”, il “grande Caf” che già ora la Cisl ha scelto di essere, oppure un “sindacato confederale” – sì – ma che deve necessariamente proporsi con un “punto di vista alternativo”. Perché, pur non potendo riproporre “gli schemi del passato”, deve comunque “dire qual’è la su proposta, il suo orizzonte, la sua idea di società”. Che non potrà mai essere la stessa dell’impresa. Da qui partono. Approfondendo i temi in un prossimo seminario a Brescia, ma soprattutto – intanto – mettendo in cantiere una manifestazione nazionale il 18 maggio. Promossa dalla Fiom, ma a cui lo Spi diretto da Carla Cantone ha promesso di “mescolarsi”. Un segno di vita, sperando che altri seguano.