Un anniversario mutilato

1 Giugno 2013
Gianni Loy
E’ tornato anche quest’anno, il 20 maggio. Come tutti gli anni, a  partire dal 20 maggio del 1970, da quella data che introduce il numero della legge, la n. 300,, più nota come Statuto dei lavoratori.
Non ricordo più quante volte, nel corso degli anni, ho avuto modo di commentare quell’evento. Spesso, ho sottolineato  il fatto che quell’anniversario cade di maggio, il mese in cui fioriscono le rose, un mese che evoca speranza. Per me, poi, è come il riassunto di tutta una carriera scientifica, visto che proprio sulle pagine di un celebre Commentario dello statuto dei lavoratori, nei primi anni ’70 è avvenuta la mia iniziazione al Diritto del lavoro.
Anche quest’anno, nei giorni scorsi, è caduto impietoso l’anniversario, 43 anni dopo.  Diverso il sapore, perché quel gigante che ha resistito agli attacchi dei referendum abrogativi, alle massicce campagne degli avversari, aveva sinora affrontato quelle battaglie riportando solo leggere ferite, piccole cicatrici, ininfluenti rispetto allo straordinario significato di quella legge. Stavolta no. Stavolta festeggia (?) il suo anniversario con vistose mutilazioni. E’ stato infine intaccato uno dei suoi valori portanti, quell’art. 18 che,. A partire dal 1970, ed almeno per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, prevede la reintegrazione nel posto di lavoro per quei lavoratori che siano stati licenziati senza una giusta causa o un giustificato motivo.  Una mutilazione, avvenuta con un ampio consenso parlamentare, che consente oggi di trasformare il diritto alla reintegrazione, nella maggior parte dei casi, in una indennità economica. Anche ove avesse torto, il datore di lavoro, potrà sempre liberarsi del dipendente sgradito grazie al pagamento di una indennità  ceh può arrivare sino ad un massimo di 24 mensilità della retribuzione.  Rimane il diritto alla reintegrazione solo nel caso del licenziamento discriminatorio (ci mancherebbe altro!) ed in alcuni altri casi, di dubbia decifrabilità, data la scrittura contorta di una legge volutamente equivoca  proprio per non scontentare nessuno.
Ma non è sul contenuto della legge che voglio soffermarmi, piuttosto sull’atto in sé e sul suo significato. Si è trattato, infatti, quasi di una vendetta, consumata, a freddo, 43 anni dopo, approfittando della debolezza indotta dalla crisi economica.
Un forte movimento di opposizione allo Statuto dei lavoratori, infatti, è sorto già all’indomani dell’approvazione della legge. Movimento sostenuto soprattutto dai partiti della conservazione e dagli ambienti più reazionari del paese, che attribuivano allo Statuto pressoché tutti i mali della nostra società, i ritardi nell’economia, la scarsa competitività, l’assenteismo.  Ed invece possiamo affermare, ed a ragione, che lo Statuto dei lavoratori ha segnato, per il movimento operaio e per tutta la società, lo spartiacque tra la preistoria e la storia.  Ancora non è scomparsa quella generazione capace di ricordare il grado di sottomissione dei lavoratori di fronte ad un pressoché illimitato potere datoriale, che poteva financo umiliare il lavoratore con atti quotidiani di controllo, di perquisizione,  al quale era affidato persino il potere di verificare, mediante i suoi medici, le condizioni di salute dei propri dipendenti, rendendolo così arbitro del diritto dei lavoratori a tutelare, con la cura e con il riposo, la propria salute. Per non parlare della estromissione del sindacato dalle fabbriche, posto che, prima, la libertà sindacale era ridotta a diritto ”pubblico” che non poteva  intaccare in nessun modo la sfera privata del datore di lavoro. Con lo Statuto dei lavoratori il sindacato entra in fabbrica. Si tratta di un’altra, importante, limitazione delle prerogative datoriali, che è tenuto a consentire, al suo storico avversario, condizioni di agibilità all’interno stesso del i luoghi di lavoro, concedendo assemblee, permessi sindacali, diritto al proselitismo e così via.
Queste norme sono rimaste pressoché immutate per quasi mezzo secolo. E non hanno prodotto nessuno sconquasso nell’economia italiana. Con le norme dello Statuto dei lavoratori in vigore, il nostro paese ha conosciuto periodi di miracolo economico e di piena occupazione. Applicando le stesse norme, il nord ha alternato periodi di straordinaria crescita economica, comparabile a quelle dei più avanzati distretti del centro-europa, con periodi di crisi. Il sud, a dimostrazione dell’indifferenza delle norme protettive sulla crescita e sull’occupazione, ha alternato periodi di disoccupazione neppure comparabile con quanto accadeva nel nord.
In sostanza, solo con malafede si potrebbe oggi sostenere che le norme di tutela dei lavoratori, incluse quelle contro il licenziamento illegittimo, possano avere  effetto  sulla crescita economica e sui livelli di occupazione.
L’assunto è di evidenza tale che non occorre neppure invocare le esperienze empiriche che lo confermano.
Quindi?  Quindi si è trattato di una sorta di vendetta postuma o, se si vuole, di un diversivo, per distrarre l’attenzione dalla totale incapacità di progettare politiche economiche in grado di far fronte alla grave crisi economica che attraversiamo.
In mancanza d’altro, in definitiva, si è approfittato per spuntare le ali ad un movimento operaio che, nel passato, aveva imposto, soprattutto, il rispetto della dignità dei lavoratori.
Con questo spirito riflettiamo, oggi, a margine di un anniversario più triste del solito. Ma almeno utilizziamolo per prendere coscienza della falsità dei messaggi che, subdolamente si cerca di inculcare nell’opinione pubblica. Che non possiamo permetterci più un sistema di sicurezza sociale, ad esempio. È del tutto falso: quasi tutti i paesi che in Europa, stanno meglio di noi, hanno conservato un livello di stato sociale assai migliore del nostro.  Ed i paesi d’Europa dove più basso è il tasso di disoccupazione o dove, meglio ancora, il tasso di occupazione è enormemente più elevato del nostro, registrano un costo del lavoro sicuramente più elevato di quello italiano. Per non parlare della flessibilità. del suadente inganno che vorrebbe correlare le prospettive di crescita economica con il tasso di flessibilità  del lavoro. La falsità di questo banale assunto non solo è dimostrata da ogni analisi empirica, ma ha condotto la stessa OCSE ad ammettere che una sana ripresa economica si accompagna, invece, proprio alla creazione  di posti di lavoro stabili  e remunerati.

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