Il tunnel e la luce

16 Settembre 2009

tunnel.jpg

Marco Ligas

Abbiamo lasciato il tunnel alle nostre spalle, incominciamo a vedere la luce!
È lo slogan che il governo, irresponsabilmente e al tempo stesso con compiacimento come se avesse realizzato la quadratura del cerchio, ripete per tranquillizzare le tante famiglie italiane che subiscono gli effetti della crisi.
La confindustria non è da meno anche se dalle sue analisi emerge una maggiore prudenza, soprattutto sui tempi della ripresa. Ed è più che mai opportuna questa prudenza perché la disoccupazione continua a crescere e raggiunge percentuali preoccupanti (9,5% nel paese, 13-15% in Sardegna). Tutto ciò mentre i livelli occupativi non sono destinati a crescere neanche nei prossimi anni, quando si presume che verrà superata la fase più delicata della crisi. I processi di ristrutturazione e di riconversione industriale non lo consentiranno. Gli stessi economisti vicini al ministro del tesoro, dunque non solo le cassandre, sostengono che nel corso dei prossimi anni avremo un debito pubblico più elevato, un capitale privato impoverito e minori investimenti da parte dell’intero sistema produttivo.
Con queste premesse l’ipotesi di una ripresa dell’occupazione è del tutto fuori luogo, e il governo farebbe bene ad affrontare con maggiore serietà questi problemi e a non parlare di uscita dal tunnel.
In Sardegna dopo le industrie chiudono le scuole e vengono licenziati gli insegnanti e il personale ATA. Sono 1700, forse 2000, coloro che perderanno il posto di lavoro. Sono cifre pesantissime e si aggiungono a quelle dell’industria e dell’indotto, ormai difficilmente stimabili perché in continua crescita. La giunta regionale, anche su questa controriforma della scuola, si distingue per la sua subalternità mostrandosi incapace di difendere i bisogni della popolazione sarda. L’assessore Baire e il presidente Cappellacci continuano a comportarsi come i fantocci di un premier sempre più squalificato. Ma non è solo l’occupazione a subire i contraccolpi delle scelte del ministro della pubblica istruzione, tutto il sistema formativo si avvia a subire un’ulteriore impoverimento culturale attraverso l’aumento degli alunni per classe, la soppressione di diversi istituti comprensivi e i tagli degli investimenti.
Queste riforme mettono in evidenza come non solo peggiorino le condizioni di vita dei lavoratori ma come la stessa dimensione umana del lavoro stia subendo una profonda mutazione. Sempre meno il lavoro  viene considerato e vissuto anche come strumento di realizzazione personale; più frequentemente, quando c’è, viene apprezzato nel suo aspetto strumentale: si va a lavorare perché si riceve in cambio un compenso, una retribuzione per quel che si fa; l’importante è che possa soddisfare i bisogni e gli interessi di chi lo svolge, bisogni e interessi sono però estranei al luogo di produzione e a ciò che si produce. C’è più di una ragione che rende comprensibile la frattura tra l’utilità del lavoro e la realizzazione della persona in esso: la sua continua trasformazione e parcellizzazione, la moltiplicazione dei nuovi contratti che non danno sicurezza, insomma la precarietà assunta come base delle relazioni tra l’impresa e il mondo del lavoro. A ciò si aggiunga la minaccia permanente dell’abolizione dei contratti collettivi e la loro trasformazione in contratti tra l‘impresa e i singoli lavoratori, ciò che alimenta un ricatto permanente contro di loro.
Le conseguenze di questa nuova condizione non vengono prese in considerazione né dal nostro governo né dall’organizzazione degli imprenditori. Che molti lavoratori siano costretti a sopravvivere attraverso gli ammortizzatori sociali, e vedano perciò umiliata la loro professionalità e la loro dignità di uomini, non crea alcuna preoccupazione; anzi si diffonde l’opinione che gli ammortizzatori sociali facciano crescere il numero dei fannulloni e perciò debbano essere presto soppressi.
Ben diverso è stato l’atteggiamento quando si è trattato di aumentare l’età pensionabile. In quell’occasione furono in molti a sostenere che il pensionamento, soprattutto quando avveniva prima dei 60 anni, creava seri problemi non solo alle casse dello Stato ma agli stessi pensionati. Una persona che smette di lavorare quando è ancora giovane, così si diceva, deve affrontare contemporaneamente gli effetti della perdita delle relazioni sociali e dell’uso delle sue competenze professionali. Tutto ciò è destinato a turbare gli equilibri psicologici degli anziani e per evitare questi rischi si sottolineava la necessità dell’innalzamento dell’età pensionabile. Perché non porsi gli stessi interrogativi sulle conseguenze della cassa integrazione o dei licenziamenti o dei lavori precari che, tra l’altro, riguardano persone più giovani dei futuri pensionati? Nella contraddizione di questi comportamenti sta la coerenza del potere!

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI