Statutaria e presidenzialismo
16 Ottobre 2007Andrea Pubusa
Nei giorni scorsi il presidente Bush ha posto il veto su una legge votata dal Congresso e volta a dare l’assistenza sanitaria gratuita ai bambini poveri, che in quel Paese ne sono privi (al pari di tutti i poveri). E’ una decisione eticamente riprovevole e nell’apparenza, politicamente suicida: perché privarsi del consenso di milioni di americani (i genitori del bambini poveri sono elettori)? C’è un nesso col sistema istituzionale americano? C’è un collegamento col presidenzialismo? E’ una questione che ci riguarda direttamente almeno in prospettiva? Il 21 ottobre si avvicina: dobbiamo, col voto, approvare o bocciare la legge Statutaria, c’è in gioco una forma di presidenzialismo estremizzato, voluto da Soru e molti s’interrogano sul significato del presidenzialismo. Come rispondere? La forma di governo presidenziale è un regime politico volto a realizzare la supremazia di un organo monocratico su tutti gli altri organi costituzionali. L’organo legislativo viene ridotto a strumento di sostegno permanente e assoluto all’azione presidenziale. Questo è, in estrema sintesi, il presidenzialismo della legge statutaria sarda. Una sistema non coincidente affatto colle forme di governo presidenziale esistenti negli stati democratici e neanche con altre forme di governo rappresentativo. E’ il frutto di un’ingegneria istituzionale volta ad estremizzare la forma presidenziale con la finalità di limitare il giuoco democratico alle classi dominanti e ai ceti medio alti, intelligenti, ma disponibili al lavaggio del cervello, secondo quanto ci và raccontando con acume Noam Chomsky.
In realtà, il presidenzialismo nel modello più noto e citato si è formato negli Usa come evoluzione dalla forma parlamentare, ossia di una sistema in cui era il Congresso ad assumere ed esercitare la funzione d’indirizzo politico. Furono le crisi cicliche del sistema capitalistico a richiedere dallo Stato politiche di sostegno, suppletive e interventistiche e a determinare l’affermazione del primato del presidente nell’esercizio della funzione di governo. Non a caso fu negli anni Trenta, dopo la grande crisi del ’29, che la cultura giuridica individuò nella funzione d’indirizzo politico il potere primario dello Stato in quanto determinante l’azione del governo e del parlamento.
Tuttavia, contrariamente alla vulgata (anche nostrana), il presidenzialismo non risolve i problemi della governabilità. Al contrario, il bipolarismo presidente/parlamento generano crisi e conflittualità, in quanto l’Assemblea mal accetta che l’esecutivo e il presidente esercitino un’incontrastata direzione politica.
Ecco, sta qui la ragione dell’ulteriore passo del presidenzialismo: comprimere le prerogative parlamentari per eliminare l’autonomia che un parlamento, per sua natura e per l’investitura popolare, esprime e rivendica. Ed allora ecco gli ulteriori passaggi: all’investitura popolare del presidente si dà un valore plebiscitario per giustificare la funzionalizzazione complessiva dell’organizzazione delle istituzioni al suo potere. Il presidenzialismo nasce, dunque, oggi da una visione plebiscitaria della sua legittimazione, che appunto è vista più come investitura di un capo; il presidente ha un’investitura piena e diviene l’esclusiva vox populi, il soggetto chiamato ad interpretare direttamente lo spirito e la volontà popolare. L’elezione dell’Assemblea ha una valenza minore, è la scelta non di rappresentanti degli elettori (già rappresentati dal presidente) ma di persone chiamate a ratificare le decisioni del presidente (i membri di maggioranza) o ad esercitare un diritto di tribuna (le minoranze). Insomma, dalla diversa valenza della scelta del presidente e dell’elezione dell’Assemblea si fa discendere il carattere sostanzialmente servente della seconda rispetto Pal primo. E se l’assemblea intende mantenere una sua autonomia, questa aspirazione viene compressa con l’assegnazione al presidente di poteri capaci di neutralizzare l’indirizzo politico parlamentare, con veti, limitazioni varie all’iniziativa parlamentare fino all’uso dell’arma finale, la minaccia di scioglimento o lo scioglimento (la clausola dissolvente della Statutaria: se il consiglio muove sfiducia al presidente cade con lui e al pari dell’ipotesi in cui questi si dimetta). In Italia si è già andati ben oltre su questa strada. A livello regionale ci sono i listini formati da candidati che vengono scelti dal presidente ed eletti senza essere votati singolarmente dai cittadini. Funzione? Riempire l’assemblea di un bel gruppo di persone col compito dire sempre sì al presidente. A livello nazionale addirittura l’intera Camera è scelta da una ventina di dirigenti dei partiti!
Un sistema di questo tipo ha poi due conseguenze: personalizza le elezioni, le rende affare riservato a chi ha grandi risorse economiche e mediatiche, esclude dalla rappresentanza chi non ha mezzi e, ciò che è più grave, distacca il potere dal corpo sociale. Solo i ceti agiati o comunque medio-alti rimangono in campo. Il sistema così si ristruttura in modo da espungere o marginalizzare nella rappresentanza e nel suo esercizio perfino la percezione delle esigenze della pluralità, le ragioni delle differenze, i fattori di contrapposizione nella società. Insomma, il conflitto sociale è rimosso o è politicamente soppresso. Non è quanto sta accadendo davanti ai nostri occhi anche in Italia? Ogni tentativo di rappresentare le esigenze dei ceti disagiati non viene stigmatizzato, con l’aiuto dei mass media e degli opinion makers, come estremismo, radicalismo o massimalismo?
In questo modo cresce a dismisura l’astensione: chi non si sente rappresentato non si reca neppure alle urne. E così, senza che vi sia una preclusione legislativa, di fatto la rappresentanza, i diritti politici tornano ad essere affare delle classi abbienti: i ceti popolari o le avanguardie intellettuali e politiche rifluiscono nel sociale e disertano le elezioni. Partecipa alle decisioni politiche una parte sola dei titolari della sovranità, quella di coloro che dispongono di potere economico e sociale o che sanno di potere ottenere qualche vantaggio dal voto che scambiano (pennivendoli, managers che guadagnano 50, 100, 500 volte più degli operai, grandi burocrati etc.). La democrazia recede a regime delle classi agiate, ossia è un simulacro della democrazia, ma non è più democrazia.
Ed allora torniamo al quesito iniziale. Bush pone il veto alla legge volta a dare assistenza sanitaria gratuita ai bambini poveri americani perché in quel sistema le compagnie assicurative finanziano le campagne elettorali presidenziali e controllano i media. Insomma, contano più loro con la loro potenza economica e mediatica che milioni di elettori disagiati che, esclusi dal gioco politico, non vanno neppure a votare. E, dunque, ai loro figli (e a loro) niente diritto alla salute. E’ desiderabile questo sistema? E’ vero, ci sono gli oligarchi in agguato. E i soriani di ferro gridano al lupo, al lupo! e ci collocano fra gli utili idioti che vogliono ridare il potere ai Cabras, ai Floris e compagnia. Si può impedire che l’oligarchia sfoci – secondo ripetuto copione storico – in principato? Si può scansare il martello di Soru e l’incudine di Cabras? Certamente: attraverso una limpida battaglia per una statutaria che delinei una forma di governo equilibrata, per una legge elettorale alla tedesca (proporzionale corretto), per prevenire il conflitto d’interessi prevedendo l’ineleggibilità dei grossi imprenditori, per un ordinamento regionale fondato su un rapporto equilibrato e collaborativo fra Regione ed Enti locali, per la salvaguardia degli istituti di democrazia diretta e per l’introduzione di forme di democrazia partecipata, secondo l’insegnamento di Porto Allegre. Ecco in sintesi i capitoli di un progetto su cui creare l’unità della sinistra e per coinvolgere la vasta area democratica oggi disorientata e dispersa. E’ una battaglia difficile, ma non impossibile.
25 Ottobre 2007 alle 16:49
E ora come la prenderanno i conservatori del NO? Dopo il micidiale tonfo del loro attacco all'”imperialismo soriano”? Pretenderanno ancora di ritenere valido il referendum con quella irrisoria partecipazione alle urne? (che, all’evidenza, secondo loro poteva esser anche più irrisoria, dato che se fossimo andati in tre a votare, io Pubusa e Maninchedda (col rislutato di 2 a 1), la legge non si sarebbe dovuta promulgare!!).
Siano seri. Riconoscano di aver fallito e lascino che la Sardegna si doti di una delle poche leggi serie ed utili al miglioramento dell’efficienza della macchina regionale. Si potrà migliorare; si dovrà migliorare.
Ma ora la vogliamo vedere pubblicata sul BURAS