Occorre uscire dalla trappola dell’austerità
1 Aprile 2014Gianfranco Sabattini
L’Italia in questo momento si trova ad essere collocata nella parte sbagliata del mondo: è la tesi sostenuta da Federico Rapini nel suo ultimo libro “La trappola dell’austerità. Perché l’ideologia del rigore blocca la ripresa”. Bolle speculative a parte – afferma Rampini – sul fronte dell’economia reale, in una metà del mondo “le cose girano per il verso giusto. Dall’America all’Asia è un susseguirsi di buone notizie”. Rampini si riferisce quindi a quella parte del mondo che è riuscita a voltare pagina rispetto alla crisi, per via del fatto che ha adottato “terapie economiche diametralmente opposte” a quelle privilegiate dai paesi dell’eurozona”.
La parte del mondo in crescita, USA, Cina, Corea del Sud, Indonesia, Taiwan e Giappone hanno messo in campo vari strumenti di politica economica che vanno dagli investimenti pubblici alle politiche monetarie delle banche centrali, secondo procedure ignorate nel Continente europeo. Anche il Giappone è tornato a crescere; sotto la guida del capo del governo Shinzo Abe, il paese asiatico sta uscendo da una depressione economica durata vent’anni. L’”abeconomics”, com’è stata denominata la terapia inaugurata dal Premier del Sol Levante, è fondata su un “mix” di investimenti pubblici e di una politica monetaria molto espansiva.
Alla politica anti-crisi del Giappone si è associata quella della Federal Riserve americana, basata su consistenti acquisti di titoli del debito pubblico volti a tenere basso il costo del denaro, a vantaggio di imprese e famiglie, e, al tempo stesso, per svalutare la moneta e sventare i pericoli della deflazione, promuovendo così le esportazioni. Tutti gli elementi che hanno consentito all’America ed ai paesi asiatici di tornare a crescere non sono presenti nelle misure di politica economica dei paesi dell’eurozona: gli investimenti pubblici sono tenuti a freno dal rigore imposto dai parametri di Maastricht; la politica monetaria della Banca Centrale Europea ha provocato sinora una sopravalutazione del cambio rispetto al dollaro che è servita solo a “penalizzare” le esportazioni; infine, gli aiuti concessi dalla BCE alle banche attraverso prestiti diretti sono stati utilizzati dalle banche stesse per “curare” il loro stato patrimoniale e non ad indirizzare le risorse monetarie ricevute vero le imprese e le famiglie.
Con le loro procedure, l’America ed i paesi asiatici hanno posto fine al pensiero neoliberista e all’ideologia dell’austerity, mentre all’interno dell’eurozona ci si è illusi di poter utilizzare quest’ultima come antidoto agli eccessi del liberismo. All’origine, è stata la Germania a mettere per prima sotto accusa il neoliberismo americano, per aver causato nel 2008 la crisi del mercato immobiliare coi prestiti sub-prime; giustamente osserva Rampiti, perché le autorità americane hanno utilizzato l’”economia del debito facile” come strumento per superare le difficoltà sociali indotte dalla crescita delle disuguaglianze distributive, a favore di prenditori poco affidabili, permettendo alle banche finanziatrici di fare fronte al rischio di insolvenza con la “spalmatura” del rischio attraverso il collocamento sui mercati dei famosi derivati, “imbottiti” dei “crediti scadenti”, quali erano appunto i crediti sub-prime.
Ma, successivamente al 2008, dopo che è divenuta evidente la correlazione tra il fenomeno sub-prime e la tendenza degli USA ad un indebitamento crescente nei confronti dell’estero, la Germania, convintasi dell’insostenibilità della pretesa degli USA di vivere al di sopra dei propri mezzi, ha maturato una “visione etica” della parsimonia, sino a giustificare il ricupero nell’immaginario collettivo di una vecchia versione del liberismo, propria del suo mondo culturale: l’ordoliberismo. Questo ha indotto la Germania a divenire la sostenitrice di una visione moralistica dell’economia, associata alla fiducie nella improbabile capacità autoregolatrice dei mercati; questa visione, la Germania l’ha imposta a gran parte dei paesi europei, soprattutto a quelli che si trovavano nella difficoltà di equilibrare i propri conti pubblici, quasi a titolo di espiazione per essersi concesso troppo benessere.
Ma l’America – conclude Rampini – ha saputo porre rimedio ai suoi errori, “svincolandosi” dal pensiero liberista e rilanciando l’economia ad ogni costo, sebbene, si possa osservare, resti da vedere se questo rilancio sarà immune dal pericolo di nuove “bolle”. Una cosa tuttavia è certa: l’America è tornata a crescere solo dopo che gli investimenti pubblici e la politica monetaria espansiva hanno reso possibile che il potere d’acquisto si diffondesse tra i ceti sociali più numerosi, ovvero tra quelli che più hanno patito le conseguenze dello scoppio della crisi del 2008, la cui sofferenza costituirebbe la prova inconfutabile del fallimento storico delle politiche espresse congiuntamente dall’austerity e dal neoliberismo.
La tesi di Rampini non è isolata; essa è condivisa da molti analisti come, ad esempio, Joseph Stiglitz, Nouriel Rubini, Marcello De Cecco ed altri ancora. Secondo Stiglitz, l’Europa deve necessariamente cambiare le sue politiche di austerity, però all’interno di un’Unione Europea più compiuta; occorre più Europa oppure meno euro, per evitare che i paesi più in crisi, come l’Italia, arrivino al punto “di dovere abbandonare l’euro per salvare l’Europa. Sarebbe preferibile di no, sarebbe meglio che fosse l’Europa ad abbandonare l’austerity”. Secondo Nouriel Rubini, il rigore da solo non basta, in quanto aggrava progressivamente la situazione. “Bisogna rovesciare l’impostazione voluta dalla Germania e puntare sulla più ampia circolazione di moneta per rilanciare la domanda aggregata, i consumi, le capacità di guadagno. Fare come gli Stati Uniti e adesso anche il Giappone”. Anche per Marcello De Cecco le misure adottate per ridurre i costi della crisi sopportati dalle imprese e dalle famiglie sono state di natura casuale, rivelando l’assenza di una politica economica dotata della visione strategica che il superamento della crisi avrebbe richiesto. La strategia dei “due tempi”, prima il riequilibrio dei conti pubblici e le riforme strutturali, poi il rilancio della domanda aggregata, è stata sicuramente la “ricetta” per contrastare il trend negativo del sistema sociale; essa però, allo stato attuale, appare essere stata adottata per troppo tempo.
Riuscirà l’Italia a correggere le misure anticrisi sinora attuate? Si!, può riuscirci, se la Germania e l’Europa germanofila attenueranno la loro visione moralistica dell’economia, consentendo una maggiore flessibilità dei parametri di Maastricht perché il riequilibrio dei conti pubblici e l’attuazione delle riforme possano avvenire con l’impegno del sistema finanziario a supportare l’economia reale, al fine di realizzare uno “spazio macroeconomico” utile a fare diminuire l’indebitamento pubblico. Tutti questi aspetti sono tra loro interrelati; di ciò ne è convinto il neo Ministro dell’economia e delle finanze Pier Carlo Padoan, nella cui competenza e conoscenza dei problemi da risolvere sono riposte le speranze ultime degli italiani che il loro paese possa finalmente percepire l’inizio della fine della crisi che da anni l’affligge.