La fine del petrolchimico
1 Maggio 2014Gian Nicola Marras
Si è conclusa tristemente la lunga e nobile battaglia dei lavoratori della Vinyls, la ditta che produceva il PVC a Porto Torres. La fine dell’azienda ha radici lontane nel tempo. Nasceva come joint venture olandese paritetica all’Eni nel 1986, dopo numerosi cambi di proprietà nel 2009 manda in cassaintegrazione i suoi 120 operai senza una valida motivazione. Definitivamente saltato il tanto atteso accordo con l’ENI, il 24 aprile 2014 l’azienda ha provveduto a recapitare le lettere di licenziamento per gli 88 operai su un totale di 113 dipendenti. La fine definitiva del rapporto di lavoro è prevista per il 7 luglio 2014. Un trauma non solo per gli operai sardi, ma per tutta l’isola. Per i lavoratori della Vinyls gli ultimi 5 anni sono stati caratterizzati da scioperi, manifestazioni, ma soprattutto la celebre occupazione dell’isola dell’Asinara e l’esperienza de “L’isola dei cassaintegrati” e “Asinara Revolution”, pagina Facebook e romanzo d’inchiesta pubblicati da Michele Azzu e Marco Nurra.
La miccia del fallimento era innescata da tempo e ha finito col coinvolgere anche lo stabilimento Syndial Assemini dove la materia prima (etilene) prodotta a Porto Torres veniva trasformata in dicloretano, poi nuovamente trasportato a Porto Torres per diventare cloruro di vinile. Una poco oculata gestione dei costi di produzione da parte dell’azienda, si tratta di “una pratica costosa anche agli occhi di qualunque non addetto ai lavori, causa un conto debitorio nei confronti di Eni-Polimeri Europa di numerosi milioni di euro -si legge da più parti 100 milioni di euro” (dal Rapporto 2011 sul Mercato del Lavoro in Sardegna p.183).
All’autoreferenzialità del mondo politico ha fatto da contraltare l’iniziativa dei lavoratori sempre promotori di un dialogo e confronto democratico. Un coro rimasto sfortunatamente inascoltato. La proposta della chimica verde, cui peraltro è stato prodotto un protocollo d’intesa (http://goo.gl/w8Hd7p) rimane ancora un progetto solo su carta. Un progetto per il quale erano previsti investimenti per un ammontare di 500 milioni di euro, oltre 700 nuovi impieghi, e che veniva presentato durante gli anni della presidenza Cappellacci come la strategia ideale per avviare un nuovo –e peraltro necessario- percorso di innovazione industriale. Scopriremo nei prossimi mesi se il progetto avrà futuro (http://goo.gl/mVRZWl). In tutti i casi confermando le false promesse, il percorso di riconversione in direzione della chimica verde, “lean” e maggiormente redditizia, pare non verrà accompagnato da un parallelo percorso di riassorbimento della forza lavoro dell’ormai ex-petrolchimico.
Anche il PD, che dovrebbe essere il raccordo di sinistra tra politica e mondo del lavoro, ha perpetuato un assordante silenzio. Tale disinteresse non solo è lesivo per la vita democratica dei lavoratori, ma è anche pericoloso per la sinistra italiana e per la tenuta e il significato storico della rappresentanza sindacale. Un atteggiamento sprovveduto, quello di un partito -che solo nell’immaginario collettivo occupa lo spazio politico della sinistra in Italia- che indirettamente alimenta i consensi di forze politiche populiste che fanno leva sul malcontento e sull’indignazione generale senza avere alcuna concreta progettualità per la risoluzione dei problemi del mercato del lavoro.
Tale sentimento è confermato dalle parole di uno dei cassintegrati: “Mi sento tradito, ci era stato chiesto il ‘voto utile’ per Bersani, e io sono stato uno di quelli che a Torino è andato a una riunione del Pd a dire che il voto utile lo davamo ma dovevano aiutarci in questa situazione. Ora siamo cornuti e mazziati, penso che molti di noi voteranno Movimento 5 Stelle”.(http://goo.gl/5uWpCg).
Queste sono le evidenti conseguenze sociali e politiche della non-inclusione in un contesto professionale, il disagio psicologico e sociale prodotto dell’impossibilità di raggiungere un obiettivo agognato e desiderato: una vita dignitosa.
In questi cinque anni, si sono alternati sulla poltrona del Ministero dello Sviluppo Economico di via Molise a Roma ben 6 ministri che certo non si sono indaffarati nella difesa del diritto al lavoro degli operai rimasti. Altre 88 famiglie che perdono definitivamente la speranza di un lavoro (e quindi di un futuro) a Porto Torres, oramai città industriale fantasma. Vinyls, Alcoa, Rockwool, Keller, Carbosulcis, Eurallumina, Legler, i nomi dei lampanti segnali che in tutta l’isola evidenziano la drammatica attualità del fallimento della strategia dei poli industriali di sviluppo che aveva caratterizzato i Piani di Rinascita. Delle “Cattedrali di sabbia” come aveva suggerito Paolo Carboni in un film di qualche anno fa.
Quella che viene presentata come la “riorganizzazione” di Vinyls, ha travolto anche gli impianti di Porto Marghera (Venezia), dove però l’ex-amministratore delegato di Eni, Scaroni ha firmato con la Regione Veneto, il Comune di Venezia e i sindacati l’accordo di cessione e la bonifica delle aree ex industriali, e la conversione in chimica verde. (http://goo.gl/cbydsE).
In tutti i casi Scaroni potrà pure permettersi un periodo della sua vita da precario, dato che percepirá 8 milioni di buonuscita per il suo servizio prestato presso l’ENI. (per approfondire http://goo.gl/dJtVaM —– http://goo.gl/eBjVXa).
Provocazioni costituzionali a parte, in questo nuovo contesto globale coesistono elementi portatori di un costante mutamento sociale e economico. I media generalisti finiscono col giustificare una retorica a sostegno delle riorganizzazioni aziendali viste come formule ideali e sintetiche per la risoluzione dei problemi del mercato del lavoro. Giusto, peccato che queste riorganizzazioni non siano accompagnate dalla creazione di vero lavoro, bensì lavori flessibili, ossia precari. Passa quindi un messaggio di pubblico dominio per cui gli attori economici (imprese e Stati sovrani) al fine di favorire l’alleggerimento del costo del lavoro, hanno bisogno di “flessibilità”.
Questa ipotesi è suggerita alle classi politiche come un portato inevitabile del processo di globalizzazione economica e culturale foriero di altre importantissime questioni sociali e giuridiche. Presentata come la ricetta ideale per l’allentamento dei vincoli che gravano sul vecchio mercato del lavoro, si traduce in una maggiore facilità da parte delle imprese nell’assumere e nel licenziare dipendenti, al fine di alleggerire il costo del lavoro per le grandi imprese in Occidente.
Ma significa anche deregulation: limitazione delle interferenze governative in materia di lavoro, ergo la possibilità da parte delle imprese di aumentare e diminuire i salari, espansione continua degli impieghi a formula “part-time” e a termine, “lavori” che si sostituiscono al “lavoro standard” quello previsto dall’elaborazione giuslavoristica esistente. Progressivamente elusa o smantellata da provvedimenti come il Job Act.
La flessibilità è stata prontamente convertita in slogan politico e declinata nelle sue varie estensioni semantiche, la rassicurante formula della “flexecurity”, flessibilità+sicurezza. Sicurezza di cosa? Certamente di precarietà.
La Vinyls è una delle tante sfortunate pedine investite da questa ondata neoliberista. Ad essa, in questi giorni si aggiunge la vicenda Buildtech, anch’essa ignorata dai tg nazionali. (http://goo.gl/jOOn96 o http://goo.gl/nwTaVx)
Si tratta di andamenti generali che contraddistinguono la nostra epoca, vicende che si innestano quindi su una dinamica ben più ampia e complessa: il post-fordismo che consiste non solo nella mutazione dei processi produttivi, ma anche nell’evoluzione (o forse dovremmo dire involuzione) dei rapporti di lavoro, delle pratiche, dei tragitti professionali e del senso del lavoro.
La risposta politico economica degli Stati-nazione al fine di fronteggiare la globalizzazione è per sua natura contraria sia alla stabilità che alla sicurezza.
Esiste un chiarissimo fil rouge che accomuna i cassintegrati dell’Asinara, il Movimento dei pastori sardi, i manifestanti di Occupy Wall Street, i precari della scuola, i manifestanti romani per il diritto all’abitare, si tratta della “deprivazione relativa”, la solida certezza di aver perduto qualcosa di più del “solo” lavoro. Perdere il lavoro oggi, significa uscire da un mercato del lavoro in recessione e che quindi fa dissolvere definitivamente la possibilità di offrire un contributo originale alla società. C’è bisogno di una politica che metta al centro il lavoro e le persone.
*Immagine: Operai, di Tarsila Do Amaral