Quando Gabo mi chiedeva una rosa gialla

1 Maggio 2014
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Kelly Velásquez*

Avevo appena compiuto 19 anni, sembravo una hippy di buona famiglia e alla mitica Universidad Nacional a Bogotá, dove studiavo, era stata imposta una chiusura di due anni per ragioni politiche dopo un’ondata di manifestazioni di strada, lasciandomi improvvisamente sperduta nel mondo degli adulti.
Con la febbre della politica che nella decade dei ’70 divorava le nostre vite, finii per una di quelle casualità frequenti della società bogotana a lavorare per la rivista di sinistra Alternativa, che era stata fondata pochi mesi prima, nel 1975, da Gabriel García Márquez. Insieme a un piccolo ma prestigioso gruppo di giornalisti: Enrique Santos Calderón, Antonio Caballero, Jorge Restrepo, Hernando Corral.
Un’avventura dovuta probabilmente, per una ragazza giovane, unica donna del gruppo, per di più a fare la segretaria di redazione, alla mia ingenuità: avevo la convinzione di essere lì in quanto rappresentante del movimento studentesco nel giornale più diffuso della sinistra colombiana, che formò un’intera generazione nella difesa dei diritti umani, dei detenuti politici, dei poveri, contro le torture e le atrocità commesse dalle dittature e dai militari in America latina.
Gabo, come lo chiamavamo tutti, aveva già scritto “Cent’anni di solitudine” ed era considerato uno di più grandi scrittori del continente. Viveva in Messico, però, come nei suoi romanzi quasi per magia sapeva tutto di tutti. Anche se probabilmente quello che più gli piaceva erano “gli intrighi amorosi”, o meglio, come diceva lui stesso, “le storie di amori contrastati”.
García Márquez condivideva con tutti gli altri “lo spirito di Alternativa”, le cui riunioni di redazione erano veri dibattiti politici liberi e aperti, che portarono inevitabilmente a provocare divisioni interne. Ad esse partecipavano collaboratori e firme che erano il fior fiore dell’intellettualità colombiana.
Per Alternativa Gabo scrisse reportage su Cuba e sull’Angola, fece interviste ai Montoneros argentini, ai sandinista nicaraguensi e al giovane Felipe González: ricordo ancora come fosse oggi le difficoltà che incontrai a trascrivere le ore e ore di conversazione con l’allora emblema del socialismo spagnolo.
Le divisioni, il dogmatismo, la nascita di una guerriglia “socialdemocratica”, la presa dell’ambasciata dominicana da parte dell’M-19, la repressione sempre più pesante, minarono la vitalità della rivista, anche se vendeva 30 mila copie. Però, come è facile immaginare, non aveva pubblicità e Gabo era costretto a buttarci dentro sempre più soldi.
Il giorno in cui compì 50 anni gli dedicammo un numero speciale, illustrato con le caricature del geniale Caballero, mentre uno alla volta tutti brindammo con lui per telefono.
Quando la rivista chiuse, nel 1980, affogata sotto il peso dei debiti e dopo che García Márquez aveva annunciato che non c’erano più soldi, mi chiamò di persona: “E allora Kelly, che cosa vuoi che faccia per te. Dimmelo e io lo faccio”. Lì per lì non seppi cosa rispondere.
Poi gli dissi che mi sarebbe piaciuto trovare un lavoro a Roma perché mi ero innamorata di un italiano.
“Facilissimo, chiamo la mia amica Rossana Rossanda e vai a lavorare al Manifesto. Là ti sentirai come ad Alternativa”, rispose.
“Gabo, il fatto è che mi sono innamorata di un giornalista del Manifesto”…
A Roma capitò molte volte e allora era solito chiamarmi perché lo accompagnassi nei ristoranti di Trastevere dove i suoi amici lo invitavano: Francesco Rosi, Fernando Birri, il poeta Rafael Alberti…
Una volta mi portò con lui a una festa facendomi passare per Irene Papas, e mi propose addirittura di interpretare la Cándida Eréndira, il personaggio di uno dei suoi romanzi.
Quando lo scrittore Plinio Apuleyo Mendoza, suo vecchio amico con cui aveva clamorosamente rotto per ragioni politiche e personali (come era accaduto anche con Mario Vargas Llosa), verso la fine degli anni ’80 occupava il posto di ambasciatore in Italia, fui la unica testimone della loro riappacificazione dopo anni di gelo.
Ogni volta che arrivava in Colombia o in Italia, chiedeva con discrezione che gli mettessero sempre una rosa gialla sulla scrivania, un fiore e un colore che diceva gli portassero fortuna. E che ora lo accompagneranno nelle sue cronache dall’eternità.

*Kelly Velásquez è una giornalista colombiana. Dal 1997 lavora nel servizio in spagnolo della Agence France Presse (Afp), come corrispondente da Roma. La Traduzione è di Maurizio Matteuzzi.

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