Note antipatiche
16 Ottobre 2007Rossana Rossanda | il manifesto 12 ottobre 2007
Smettiamola, noi sinistre Manifesto incluso, di essere sorpresi e amareggiati per le misure prese dal governo di centrosinistra. Un conto è cercare di modificare le scelte, che è un obbligo che abbiamo nei confronti della nostra base o dei nostri lettori, un altro è cadere dalle nuvole come se fosse stato possibile pensare che sarebbe andata molto diversamente. Abbiamo votato l’Unione e la coalizione relativa per impedire una riedizione del governo Berlusconi, e ci siamo riusciti appena di misura alleandoci con larghi settori e partiti democratici, che non ne sopportavano i traffici e il disprezzo della Costituzione, ma che perlopiù avevano lasciato alle spalle, come i Ds, o non avevano mai avuto, come la Margherita, un impegno sociale. Ancora meno condiviso era, nella coalizione, il giudizio sulle questioni di natura civile ed etica, prima di tutto sulle relazioni sessuali (tema in gran parte superato nel resto dell’Unione europea) e sulla posizione da tenere sui rapporti stato-chiesa, che resta irrisolta, anzi per dirla esattamente, è fortemente arretrata rispetto a mezzo secolo fa soltanto in Italia e in Polonia. Su un solo punto il governo di centrosinsitra è andato a una vera mediazione con il suo elettorato più radicale, ed è stato sul tema della politica estera, mantenendo l’impegno sul ritiro dall’Iraq, assumendo qualche iniziativa coraggiosa anche se finora di scarso esito sul Medioriente e rifiutando le smanie di punire l’Iran che, oltre agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, hanno conquistato in questi giorni anche la Francia di Sarkozy.
Sapevamo dunque di essere una minoranza sul fronte del lavoro e su quello di un’etica laica. La possibilità di inflettere verso il nostro versante le linee del governo Prodi stavano, tutte e soltanto, nella nostra capacità di rimettere al centro dell’attenzione, anche attraverso una pressione sociale, i diritti di chi lavora – in parole povere assumere come priorità salari e pensioni, ridurre il precariato, riprendere saldamente quel principio elementare del pensiero politico europeo che afferma la non riducibilità delle norme di uno stato a quelle praticate dalle religioni o dalle chiese in questo o quel paese.
Sul primo punto, cui mi limito oggi, non solo non si è fatto un passo avanti, ma l’andamento delle consultazioni indette dai sindacati dimostra che sia i pensionati sia i lavoratori dipendenti sono ormai determinati dalla paura di perdere anche il poco che hanno. Vale per ogni categoria che sia venuta via via rinunciando al conflitto, come dimostrano al contrario le aziende dove ha prevalso il no, compresi alcuni call center, mentre c’è stata una quasi unanimità di sì in fabbriche o aziende minori dove nessuna lotta è stata fatta. Non conosco al momento in cui scrivo i dati del pubblico impiego e neppure quelli della scuola, dove i compensi sono i più derisori.
È una constatazione grave e niente affatto, come troppi usano dire, «economicista». Dimostra che è stata minata una coscienza basilare di quei principi che nel 1948 avevano fatto della nostra una delle costituzioni più avanzate. In questa caduta della soggettività, resterà storica la responsabilità dei democratici di sinistra, la loro rinuncia, per non dire ecclesiasticamente abiura, a una qualsiasi idea di società che non corrisponda alle leggi di una mondializzazione governata dal capitalismo più selvaggio. Ogni nuova esternazione di Walter Veltroni lo conferma fin con candore.
Ma le sinistre che si dicono radicali, noi stessi, stiamo dandoci abbastanza da fare per risalire la china? Non mi pare. E’ importante la manifestazione indetta per il 20 ottobre – rendere visibile la protesta di chi non si contenta di emettere gemiti o insulti. Almeno, di non indulgervi troppo, perché anche fra noi c’è chi dà fiato ai precordi degli umiliati e offesi, o si stringe nelle spalle, o si limita a ricordare che una protesta a furor di popolo si fonda sempre sulla mancanza di una politica forte. A me né gemiti né insulti vanno bene non per moralismo ma per senso della realtà. Anni di storia e il presente dimostrano come la denuncia o la protesta non accompagnata da una proposta portino acqua soltanto alla destra. Bisogna essere ciechi per non vederla avanzare. E sarebbe miserabile ripetere quanto siano cattivi o traditori coloro che ci governano, e, sottointeso, quanto sciocchi coloro che hanno votato già due volte Berlusconi e lo rivoterebbero se si votasse domani. Sono sciocchi i sì al referendum delle tre confederazioni sindacali, che ha visto una crescente quantità di pensionati dichiararsi d’accordo che la metà della loro propria categoria sia costretta a vivere al di sotto del livello di povertà? Sciocchi i lavoratori aderenti ai sindacati, che hanno votato a larga maggioranza di restare in condizioni salariali e normative inferiori a quelle degli altri paesi occidentali del nostro calibro e senza avere il coraggio di seguire i metalmeccanici, magari pensando che sono una specie in via d’estinzione? Non sono degli sciocchi. Bisogna cominciare a capire come la mancanza di coraggio, la poca voglia di organizzarsi, il silenzio davanti a una cabina elettorale o a un referendum, di chi teme che votando no per lui vada a finire ancora peggio, sono prove di una grande sofferenza – forse della maggior sofferenza. Penso ai ragazzi, sempre più spesso non soltanto ragazzi, dei call center, che hanno votato sì a un protocollo che li condanna a restare quel che sono, cioè in un’assoluta mancanza di prospettive e attaccati a un lavoro che – passando dal materiale all’immateriale – è identico, passando dalla fatica fisica a quella fisico-mentale, a quello di coloro che nel 1800 lastricavano le strade e furono i primi a sindacarsi.
Ma che cosa gli proponiamo noi sinistra alternativa? Non credo che sia lo «spacco tutto per dimostrare che esisto». E’ una reazione comprensibile per chi non ha un salario da perdere, o perché troppo giovane o perché professore in qualche università. La rivolta delle banlieues di Parigi lo scorso anno questo è stata, a dimostrazione di un malessere esistenziale furibondo che non ha però spostato di un metro i rapporti di forza perché non era in grado di collegare attorno a sé nessuna altra parte sociale. Il sovversivismo di immagine, sul quale contano molti nostri compagni e amici, indica solo che c’è una crepa nel consenso ma non in quale direzione vada e è per natura transitorio. Qualche riflessione sull’egemonia, cioè sulla capacità di far blocco e di contare, invece che contentarsi della propria coscienza, andrebbe fatta.
La verità è che negli attuali rapporti di forza, e non solo istituzionali, la strada di una proposta in grado di persuadere e diventare una leva reale, è stretta. Penso alla nostra rispettata ma scarsa presenza sul mercato, già esile, della stampa. Leggo sul manifesto e su Liberazione i resoconti del convegno fatto assieme alle sigle politiche della sinistra radicale e ai nostri compagni e amici di Rive Gauche (nome che suggerirei caldamente di cambiare perché la rive gauche è ormai turismo e speculazioni immobiliari). Vorrei sbagliare, ma ho visto da un lato la vastità di pensiero e di documenti degli economisti, dall’altro la povertà della tavola rotonda dei leader, che non solo non avevano trovato il tempo di ascoltarli, ma non sono riusciti a disincastrarsi dalla tagliola «stare al governo o uscirne». Non doveva venir fuori da questa giornata di incontri una proposta di programma? Anche i migliori degli economisti, se posso avanzare più che una critica un bisogno, stentano a dare un’indicazione accessibile su quel che una minoranza, al parlamento e fuori, potrebbe fare e in quali tempi. Come osservava Isidoro Mortellaro, un programma che non definisce tappe, modi, luoghi e tempi non è un programma: resta un punto di vista.
Eppure l’obiettivo di oggi, primi di ottobre del 2007, sembra evidente: contro il pacchetto del governo su welfare e precariato occorre strutturare una proposta concretamente praticabile e conquistarvi un consenso, o almeno farne una casamatta (come una volta diceva Ingrao) nella società e in parlamento. Nella società i tempi sono lunghi e è certo che si sarebbe dovuto cominciare almeno da un anno, perché si sapeva che si sarebbe arrivati al dunque su pensioni e welfare (e qui il nostro giornale dovrebbe verificare la sua capacità e tempestività di comunicazione). In parlamento invece i tempi sono stretti e le condizioni politiche non sono certo migliorate dal momento della presentazione del pacchetto. Ora, in sede parlamentare, un’iniziativa consiste non solo in una discussione forte, ma in una legge o più leggi, in una mozione o più mozioni, da sottoporre al voto. Leggi e mozioni che vanno misurate sull’oggi, cioè su un anno di crescita lenta, permanentemente corretta al ribasso e sull’impossibilità di quasi tutti i principali paesi dell’Unione europea a stare al rapporto comandato tra Pil e debito.
Stupisce che i leader dei gruppi parlamentari non abbiano fornito al convegno la loro analisi, la loro previsione e i documenti che devono averla compiuta. In tema di vincoli internazionali, fra il piegare la testa al diktat della Commissione e fare come se non ci fosse, c’è una zona di manovra. Se la sinistra europea fosse realmente operativa, questa analisi l’avrebbe già fatta e avrebbe non solo già stabilito un accordo fra le minoranze in parlamento europeo ma verificato quanto le maggioranze che sfondano il parametro debito/Pil possano essere interessate a una qualche sia pur transitoria convergenza. E’ su questo collegamento che si misura infatti in concreto la possibilità di fare da uno studio una politica. Ma il vincolo della spesa pubblica non è tutto e per certi aspetti non è neppure quello decisivo. Non lo è per quanto riguarda le pensioni, se è vero come è vero e controllabile sui numeri che quest’anno per le pensioni vere e proprie il fabbisogno è interamente coperto dai contributi dei lavoratori e per quanto riguardano i prossimi decenni, si impone quantomeno una moratoria perché le previsioni fatte poco più di dieci anni fa si sono già dimostrate errate.
Quanto alle politiche sul lavoro, che è impossibile separare da quelle economiche e sono lasciate fin troppo ai singoli stati, esse dipendono esclusivamente da compatibilità politiche interne e sono quindi per quattro quinti ideologiche. O il governo di centrosinistra le lascia interamente al conflitto con le parti sociali o, se si mette a legiferare, non può più affidare la crescita a un sistema di imprese verificatosi incapace, irrorandolo di soldi senza alcuna contropartita e tirare la cinghia sui ceti subalterni, migliorando non solo la caduta verticale dei redditi da salario nella formazione della ricchezza nazionale, ma il fatto che esistono in Italia una quantità indecente di famiglie «povere» nel senso che dovrebbero vivere al di sotto del minimo vitale. Sono due punti sui quali si misura la sua affidabilità intellettuale e morale. Tanto più se non si chiede al parlamento e al paese la ragione di ambedue le scelte. Inutile lamentarsi poi se la gente non capisce o profetare che domani capirà. Perché, come già mi è capitato di scrivere, non si tratta di un «vuoto» del fare politicoi bensì del «pieno» di una strategia liberista, che si dimostra devastante per tutta l’Europa.
D’altra parte, se su salario e pensioni la scelta del governo poggia anche su una debolezza suicida della Cgil, un ridimensionamento del precariato passa da un’elaborazione non semplice. L’attuale dispositivo del ministro Cesare Damiano è una presa in giro, rimandando il trienno di precariato a altri trienni di precariati di altre imprese. Ma che cosa suggeriscono gli economisti e i sociologi sulla possibilità di mettervi un limite secco, senza far ricadere questa forza di lavoro nel nero? Il dispositivo economico e politico da mettere in campo davvero non è facile. Ma anche qui, tra abolire la Legge 30 e il niente del pacchetto governativo, si potrebbero mettere in campo tappe, modi, tempi e controlli che potrebbero essere stabiliti in un intreccio per una volta non vizioso tra pubblico e privato.
Saremmo dovuti arrivare a farlo perfino noi, per quanto siamo un povero giornale, se lavorassimo come ormai imporrebbero i tempi e i rapporti effettivi di forza. Salvo ridursi a essere un recinto di protesta, un luogo puramente simbolico e contenti di esserlo.