Contorni: sulla terra leggero

16 Settembre 2014
dipinti 019 Grande
Giulio Angioni

È morto giovane Sergio Atzeni. È morto per acqua a quarantatre anni scarsi. E noi più vecchi di lui costretti anche alla colpa di sentirci sopravvissuti senza merito o ragione. Sì, per la morte andiamo sempre in cerca di spiegazioni, di cause, di modi, perfino di destini e di premonizioni. In questo caso vengono facili i paragoni con i Byron e gli Shelly o i Martin Eden, come hanno fatto generosi i coccodrilli della stampa.

Quando l’ho saputo, l’ho ricordato canticchiare la canzone triste cagliaritana di Antonineddu Lecca caduto in mare, e non hanno fatto in tempo a ripescarlo, poi è accorso Andria col suo carrettino, per trasportarlo direttamente al cimitero… Mi è pure tornata in mente l’illustrazione sulla prima di copertina del suo ultimo libro, L’ultimo passo è l’addio, che mostra un uomo su un approdo colpito dall’onda, com’è successo a lui fino a morirne. Anch’io sono andato in cerca di nessi, di sensi, di spiegazioni, o quasi. Così, del mare che l’ha ucciso torna in mente che c’è tanto nel suo terzo recente romanzo, che inizia con la partenza per mare del protagonista, dal porto di una Ca­gliari onnipresente negli scritti di Sergio Atzeni, coi capperi che pendono a ciuffi giù dai bastioni della città murata la cui visione lontana negli occhi di un contadino campidanese apre il suo primo romanzo, Apologo del giudice bandito, e nei cui misteriosi vicoli si svela e si riavvolge il mistero di un’origine individuale, di una nascita, raccontato nel romanzo di mezzo, Il figlio di Bakunìn.

Sergio Atzeni infatti è lo scrittore sardo che per temi e soprattutto per stile appariva il meno rustico, il meno agropastorale, e il più cittadino, e probabilmente era e resta tale per questi nostri tempi, in una Sardegna fino a ieri così povera di vita urbana. Eppure, non per civetteria filologica, dell’attivita scrittoria di Sergio Atzeni, a parte le sue apprezzate prove giornalistiche, bisogna segnalare che, dopo una raccolta di Fiabe sarde fatta con Rossana Copez, la sua prima pubblicazione letteraria è, nel 1984, Araj Dimoniu, antica leggenda sarda, figlia del suo essere stato nell’infanzia un sardo dell’interno, con una madre ostetrica condotta anche a Orgosolo, piuttosto che del suo essere stato poi un sardo di città, irrequieto, politicamente attivo, nella prima metà degli anni Settanta segretario provinciale cagliaritano della Federazione Giovanile Comunista. Di quei tempi ricordo le recensioni di narrativa su l’Unità, come pure quelle qui su Linea d’ombra, quando Atzeni aveva già lasciato la Sardegna, diventando quasi un precario da antica bohème, che viveva in una vecchia soffitta malsana, uno che assomiglia al Ruggero Gunale de Il Quinto passo è l’addio, sempre in fuga da tutto e da se stesso, e che sceglie, lui, il reale Sergio Atzeni, di vivere dei proventi di due dei più precari mestieri non manuali in Italia, il traduttore e il correttore di bozze.

    Sì, Sergio Atzeni assomigliava a quel suo Ruggero Gunale, precario alla maniera metropolitana odierna, ma anche col disagio di essere un isolano che fugge dall’isola, restando però fedele a se stesso. E infatti non ha smesso, ma anzi ha continuato a scrivere della sua gente con più attenzione e con maggiore efficacia narrativa di prima, anche per cercare di capire i disagi odierni di stare al mondo non solo da queste nostre parti.

    Uno scrittore scomparso può e deve essere mantenuto in vita dai suoi scritti. Non per niente Sergio Atzeni, diversamente dal suo Ruggero Gunale emarginato per destino o per vocazione, un progetto l’aveva e lo ha realizzato, per quanto il suo tempo di vita glielo ha consentito: la scrittura artistica, tanto che è a questo progetto che ha sacrificato più o meno lucidamente quasi tutto il resto, facendosi anche del male, con ruvidità e risentimenti da sardo antico sotto la vernice di quella cosa confusa che si chiama cultura del rock, o giovanile, per non sapere come simbolizzarla meglio e complessivamente, ma che soprattutto vorrebbe forse alludere all’emarginazione in un’epoca dove tra l’altro pare che si sia ancora adolescenti a quarant’anni: tutto un guaio odierno nebuloso e doloroso che ci appare a tratti e a flash nell’ultimo romanzo di Atzeni, L’ultimo passo è l’addio. Poco fortunato, finora. Forse perché risulta al grande pubblico già un po’ fuori moda, mentre tengono banco altri modi troppo meno aspri e meno sinceri di rappresentare letterariamente emarginazioni e decadenze, come, per  esempio, i casi esemplari e di ottima riuscita delle  scanzonate deformazioni e degli allegri orrori di uno Stefano Benni o di un Maurizio Maggiani. Ma io credo, e non per patriottismo sardo, che Sergio Atzeni sia tutt’altro che da meno, soprattutto con questo suo ultimo Ruggero Gunale, rampollo della minuscola borghesia urbana sarda, scrivendo del quale nel suo modo scabro, usa gerghi rochettari e tossici, non ha gentilezze o spaventi muliebri alla Tamaro e nemmeno allegrie celto‑italiche alla Benni, dice di sterco e sperma e sangue e sudore e scaracchi e cattivi odori e pessimi sapori, patatine e pecorino, coca-cola e cannonau, maestrale e scarsa pioggia con sabbia di deserti africani, scrive di tristi arrapamenti e di più tristi abbandoni, ma con lontani e straniti echi di speranza: “Trentacinque anni spesi male, senza l’ombra di un mestiere in mano. Un milione e quattrocentomila in tasca. Dove andiamo? A far cosa?”.

Ma che cosa gli aveva fatto la vita, la vita in generale e la vita nella sua città? Certo anche del male. Forse per questo ha continuato a scriverne, lasciandoci molto.

 

da “Linea d’ombra”, settembre 1995

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