Contro le basi
16 Settembre 2014Marco Ligas
La manifestazione per la chiusura del poligono di Capo Frasca è un fatto politico molto importante e perciò non va sottovalutato: che tante persone, forse dieci mila, fossero presenti davanti alla base militare per rivendicarne lo smantellamento definitivo non può essere considerato un episodio di ordinaria amministrazione.
Tanto più che Capo Frasca, così come le altre basi militari presenti nell’isola, sono funzionali soprattutto alle esigenze della Nato, sempre più spesso coinvolta nelle politiche di guerra che programma su scala mondiale.
Alla Sardegna e ai sardi queste strutture non solo non servono ma risultano particolarmente dannose perché sottraggono il territorio alle popolazioni, lo inquinano e lo rendono inservibile per qualsiasi uso. E soprattutto perché sono un sostegno alle guerre.
Quella del 13 settembre è stata una manifestazione partecipata e unitaria: in questo aspetto, sottolineato da tutte le organizzazioni che l’hanno promossa e da tutte le associazioni o partiti che hanno aderito, non può non leggersi il rifiuto sempre più diffuso in tutta l’isola della presenza ingombrante e indesiderata delle basi militari.
Certo, la politica sa anche usare strumentalmente il malessere delle popolazioni, e spesso cerca di apparire estranea ai disagi che invece determina.
Troppo spesso certi rappresentanti delle formazioni politiche che governano o hanno governato sino all’altro ieri praticano con sfrontatezza il trasformismo e riescono persino a presentarsi con le loro bandiere nelle manifestazioni dove vengono contestate le scelte che hanno fatto quando governavano.
Insomma cercano di riconquistarsi una credibilità compromessa e si impegnano con molta tenacia per riuscirci.
A Capo Frasca qualche tentativo di questa natura c’è stato: è bene sottolinearlo per riconoscere in tempo la ricomparsa di queste pratiche trasformistiche.
Nel condurre la battaglia per la chiusura delle basi militari non va sottovalutato come nel nostro paese, ma forse dappertutto, non ci sia tra Stato e Regioni un rapporto improntato sul principio della leale collaborazione; i poteri del governo, qualunque cosa dica la Corte Costituzionale, non sono esercitati sulla base di accordi e non si pongono l’obiettivo di disciplinare lo svolgimento delle attività di interesse pubblico.
I rapporti sono sempre più unidirezionali: il governo decide e le Regioni devono eseguire. Altro che concertazione. Negli ultimi mesi, in seguito alla nascita del governo Renzi, questa procedura è diventata ancora più rigida: è l’anticipazione di come la Repubblica presidenziale che si vuole creare non solo ridurrà i poteri del Parlamento (ridotto alla sola Camera dei deputati) ma limiterà ulteriormente le autonomie delle Regioni, che siano o no a statuto speciale.
E non è un caso che davanti alle richieste, pur presentate timidamente, dai rappresentanti della giunta regionale sarda sul ridimensionamento delle basi il governo abbia risposto con arroganza respingendo le proposte e favorendo un atteggiamento analogo da parte dei responsabili militari preposti a queste attività.
È la riproposizione di un atteggiamento antico destinato a riprodursi costantemente. Tutto ciò
impone una rielaborazione dell’impegno politico, una svolta, anche radicale, che va costruita necessariamente attraverso un coinvolgimento più ampio e la partecipazione consapevole del popolo sardo.
Non sarà facile ma non ci sono alternative o scorciatoie.