Quali politiche industriali per il futuro?
1 Novembre 2014Gianfranco Sabattini
Nel 2012, la Commissione ha inviato al Parlamento europeo una “Comunicazione”, contenente le basi per un aggiornamento degli obiettivi della politica industriale comunitaria. All’inizio del 2014, la “Comunicazione” è stata arricchita di un “Memorandum”, noto col nome di “Industrial Compact”, nel quale sono indicati gli obiettivi da perseguire per realizzare “The European Renaissance”, cioè la rinascita industriale dell’Europa.
Il documento, oltre a definire le aree d’intervento, contiene gli obiettivi da perseguire: il primo è individuato nella piena realizzazione dell’integrazione del mercato unico europeo, per creare un ambiente consono alle attività produttive; il secondo, nella modernizzazione dell’industria, attraverso la realizzazione di alti livelli di’investimento in innovazioni tecnologiche e nelle competenze di tutta la forza lavoro impiegata; il terzo obiettivo è indicato dall’”Industrial Compact” nel potenziamento delle capacità imprenditoriali, così da supportare le piccole e medie imprese ad aumentare la loro dimensione e a creare opportunità lavorative aggiuntive; il quarto obiettivo, infine, è rappresentato dal perseguimento di un’ulteriore accelerazione del processo di internazionalizzazione delle imprese europee, per approfondire e rafforzare la loro capacità di accesso ai mercati.
Il “Memorandum” ha rilanciato anche in Italia il dibattito sulle politiche necessarie per riformare e potenziare il sistema industriale nazionale e stimolare la crescita dell’economia, da anni bloccata, già da prima dell’inizio della crisi iniziata nel 2007/2008. Enzo Pontarollo, direttore de “l’industra”, rivista di economia e politica industriale vicina alle posizioni confindustriali, ha organizzato sul tema un “Forum”, coinvolgendo un ampio numero di esperti per rispondere a diverse domande sul come il Paese può disporsi a realizzare gli obiettivi della sua futura politica industriale. I “Commenti” sulle domande, riportati nel n. 1/2014 de “l’industria”, avrebbero dovuto, a giudizio di Pontarollo, porre rimedio ai giudizi che, nel dibattito sul tema della rinascita industriale dell’Italia, risultano “spesso generici e molto esortativi” e “privi di indicazioni concrete, al punto da risultare scarsamente inincidenti”.
Sennonché, nonostante gli intenti di Pontarollo, tutti i commenti, tranne quello do Roberto Maglione e in parte quello di Francesco Sperandini, ricadono nella categoria dei “giudizi generici”, non perché essi non colgano importanti aspetti dei limiti della politica industriale attuata negli ultimi anni dall’Italia, o perché non indichino importanti aree d’intervento la cui cura si imporrà come necessaria dalla “rinascita” dell’industria italiana; ma perché i giudizi espressi risultano piuttosto una summa di tutte le azioni che dovrebbero essere intraprese, senza però l’indicazione, da un lato, del “come” tali azioni dovrebbero essere strutturate e di “chi” dovrebbe attuarle, e, dall’altro, della prospettiva organizzativa ed istituzionale alla quale dovrebbe essere ricondotta la strutturazione delle azioni da attuate.
Al riguardo, Maglione nel suo “Commento”, rispondendo all’ultima delle domande poste da Pontarollo, in cui il direttore de “l’industria” chiede ai partecipanti al Forum di esprimersi sulla capacità della mano invisibile del mercato di trovare le soluzioni, si chiede se, volendo perseguire una politica per la realizzazione di una ristrutturazione del settore industriale italiano e la promozione di una sua ulteriore crescita, la sola mano invisibile del mercato, di smithiana memoria, possa essere in grado di definire tempi e modi di attuazione di tale politica; oppure, se “non sia utile una attenta e costante analisi di una conseguente programmazione delle linee di sviluppo economico ed industriale del Paese in grado se non di anticipare, almeno di seguire i cicli di espansione, ovvero di prevenire i processi irreversibili di depauperamento del sistema produttivo nazionale”. Maglione riconosce che la soluzione del dilemma non è semplice; tuttavia, è del parere che essa si possa trovare nella riproposizione di un approccio liberista-statalista, emendato dei limiti e delle rigidità dell’economia mista sperimentata in Italia nei decenni scorsi. Come?
Maglione osserva che, nel caso “di una scelta non interventista dello Stato nel disciplinare il mercato e quindi di un comportamento neutrale della mano pubblica rispetto alle dinamiche della concorrenza, non dovrebbero esistere indirizzi programmatici di politica industriale”. Tale scelta dovrebbe essere accompagnata da estesi piani di privatizzazione delle partecipazioni statali, di liberalizzazione dei servizi pubblici e di semplificazione degli iter burocratico-amministrativi, per limitare al massimo l’ingerenza della mano visibile dello Stato nel mercato. L’effetto atteso sarebbe, però, quello di assistere al procedere parallelo di un aumento della competitività delle attività produttive e della disoccupazione della forza lavoro.
Nel breve periodo, afferma Mangione, un approccio liberista al rilancio e potenziamento del settore industriale italiano porterebbe perciò “a gravi ripercussioni sul mercato del lavoro”, in quanto, agli effetti positivi di medio-lungo termine, si contrapporrebbero gli effetti negativi della scomparsa di molte attività tradizionali, dell’approfondimento capitalistico di quelle che riuscirebbero a conservarsi sul mercato e, quindi, dell’aumento generalizzato di una disoccupazione strutturale.
All’opposto, la scelta di una politica di rinnovamento e potenziamento del sistema industriale con l’intervento dello Stato, orientato e diretto “alla difesa del sistema occupazionale ed alla tutela di settori ritenuti strategici per il Paese”, comporterebbe “processi di nazionalizzazione, regolamentazione, sostegno finanziario e protezione dei principali asset produttivi nazionali”. Gli effetti di questa scelta si tradurrebbero in una minore competitività dell’intero sistema-Paese, con bassi livelli di produttività e diffuse inefficienze. Tutto ciò configurerebbe l’approccio statalista in termini negativi, in quanto si tradurrebbe nella conservazione dello status quo e della distribuzione forzosa del reddito.
Entrambi gli approcci – osserva Maglione – potrebbero trovare una sintesi, non nella logica dell’economia mista del passato, che, per il modo in cui è stata regolata e gestita, ha solo ottimizzato il peggio dei due approcci, ma in “una via di mezzo tra liberismo e statalismo”, immaginando una condotta di politica industriale “in grado di far convivere, rendendole coerenti, logiche di competitività, redditività e apertura internazionale con obiettivi di sostenibilità economica e sociale e tutela del patrimonio industriale nazionale”.
A tal fine, però, secondo Maglione, occorrerebbe stabilire, non solo “come” dare seguito operativo e organizzativo ad una politica economica inquadrabile all’interno dell’approccio liberista-statalista, ma anche “chi” debba svolgere la funzione strategica di elaborazione e di attuazione degli interventi. La soluzione, sempre secondo Mangione, potrebbe essere trovata nella costruzione di un sistema di “governance mista”, esercitata da una “task force permanente”, composta da decisori pubblici (espressi dal mondo politico ed istituzionale) e privati (espressi dal mondo imprenditoriale e finanziario), sotto una regia del governo, cui competerebbe la responsabilità delle scelte politiche da attuare.
La proposta di Maglione è suadente; essa, però, presta il fianco a due considerazioni critiche. La prima concerne il fatto che la sua realizzazione presuppone la forza e la volontà delle forze politiche, istituzionali, imprenditoriali e finanziarie di dare il meglio di sé per la cura degli interessi nazionali. L’annoso spettacolo di incertezza e di egoismo offerto dai prevalenti comportamenti della forze politiche e sociali non lascia presagire nulla di positivo sulla possibilità di un disegno di politica economica ampiamente condiviso da tutti. La seconda considerazione critica riguarda il fatto che, sebbene nella proposta di Maglione sia prevista una tutela dei livelli occupazionali, questi tuttavia, in un approccio liberista-statalista, non potranno essere rigidamente conservati se, come è dato di prevedere, al mercato del lavoro dovrà essere garantita un ampio grado di flessibilità.
Se così stanno le cose, come può essere possibile portare in attuazione un approccio al problema della riforma e del potenziamento del settore industriale senza una parallela politica di riforma dell’attuale welfare State, per sostituire gli obsoleti ammortizzatori sociali sinora privilegiati, con forme di garanzie idonee ad assicurare un reddito a chi, in seguito alle ristrutturazioni ed agli approfondimenti capitalistici delle attività produttive, andranno incontro ad un’inevitabile disoccupazione strutturale? E’ questo un aspetto fondamentale della futura politica di rinascita industriale dell’Italia, al quale sarebbe utile che “l’Industria” dedicasse un Forum, considerato che il problema occupazionale – meglio, il problema della garanzia di un reddito a tutti – costituisce una sorta di tabù, del quale è ben nota l’esistenza, senza che nessuno sia disposto a parlarne, perché, alla maniera degli struzzi, si preferisce nascondere la testa sotto la sabbia, evitando di affrontare un problema che certamente porterebbe con sé ampi ed estesi conflitti sociali; ma è proprio la mancata soluzione di tali conflitti ad impedire l’attuazione di qualsivoglia politica industriale utile a portare il Paese fuori dal tunnel della crisi.