Disobbedire
1 Novembre 2014Marco Ligas
È del tutto comprensibile, soprattutto oggi, la rivendicazione di una Sardegna “indipendente”, non più succube delle prepotenze dello Stato italiano. Sono molteplici e crescono di intensità i soprusi compiuti contro la nostra isola: segnali di uno Stato che intende cancellare le autonomie delle regioni e le libertà dei cittadini.
Nelle intenzioni di chi governa prevale un’interpretazione della Costituzione che ne snatura l’ispirazione originaria e demolisce i pilastri della democrazia, sia nelle relazioni tra istituzioni sia nei rapporti con i cittadini.
Partendo da queste questioni, in particolare da quel che succede nell’isola, qualche compagno ci rimprovera perché il Manifesto sardo non sostiene la proposta indipendentista.
È vero, noi non siamo indipendentisti, non ce ne facciamo un cruccio ma neppure un vanto. Però ci sentiamo fortemente legati alla nostra isola e ai problemi delle nostre comunità. E ci arrabbiamo, facendo sentire la nostra contrarietà, quando il governo compie prevaricazioni che colpiscono tutto il popolo sardo, consapevoli che le conseguenze vengono pagate soprattutto dagli strati sociali più deboli.
Ci rendiamo pure conto che la nostra risposta (nostra, di tutte le componenti democratiche e di sinistra) all’arroganza delle istituzioni è inadeguata.
Davanti ai soprusi talvolta balbettiamo, rimaniamo disorientati e non riusciamo a difendere i nostri diritti e le nostre libertà. Purtroppo in molti sardi sono ancora presenti comportamenti di dipendenza nei confronti di chi detiene il potere e ciò avviene sia per debolezza culturale sia perché prevalgono vecchie logiche individualistiche.
Non parliamo della subalternità delle forze politiche che operano nell’isola: anche quelle che si definiscono di centro sinistra non riescono ad esprimere alcuna opposizione, sembrano anestetizzate dalla violenza usata dal nuovo governo.
Personalmente non credo che la creazione di una Sardegna/Stato indipendente risolva di per sé le questioni che riguardano il popolo sardo, dalla formazione professionale alla tutela e salvaguardia del territorio, dall’uso razionale delle risorse locali alla creazione di posti di lavoro, sino all’affermazione di una cultura che sappia tutelare e valorizzare la nostra storia e la nostra dignità.
Paradossalmente potrebbe capitare che una classe dirigente indigena, e perciò libera dagli attuali legami istituzionali col resto del paese, ripeta le stesse prevaricazioni di chi ha governato l’isola nei decenni precedenti. Abbiamo una lunga esperienza su come la sardità della classe dirigente non sia sufficiente a garantire la tutela dei diritti del popoli sardo.
L’inversione di tendenza potrà esserci se sapremo coinvolgere le popolazioni colpite direttamente dalle prepotenze di chi governa in un lavoro di lunga lena teso a difendere direttamente i propri diritti, superando le modalità della delega oggi troppo spesso concessa come se fosse portatrice di miracoli che l’uomo della provvidenza poi (non) realizzerà.
Come fare? Certamente è necessario contrastare un’assuefazione diffusa, anche riscoprendo e accentuando le pratiche della disobbedienza, un fenomeno non nuovo nella storia del nostro paese e nell’esperienza del movimento operaio.
Alla fine degli anni sessanta, lo Stato italiano, nel tentativo di controllare una vasta zona non ancora colonizzata nella provincia di Nuoro, decise l’installazione di un poligono di tiro a Pratobello, territorio di Orgosolo. L’ipotesi del controllo sociale attraverso la presenza militare è stata una costante dei nostri governanti: non già riforme e abbattimento dei privilegi riservati ai fruitori di rendite o profitti, ma presenza militare per contenere e sconfiggere le rivendicazioni dei più deboli.
Quel progetto comunque non passò, fu sconfitto da una lotta di popolo certo non improvvisata ma opportunamente preparata dalle componenti sociali più attive, soprattutto dal Circolo culturale di Orgosolo che riuscì a coinvolgere tutto il paese nella contestazione al governo.
Un’intera comunità dunque praticò la disobbedienza e vinse quella battaglia occupando per diversi giorni la zona di Pratobello costringendo tutti ad una ritirata.
Naturalmente non possiamo essere così ingenui da ritenere che iniziative di questa natura siano sempre possibili. È importante però far propria l’ispirazione di quell’impegno politico attraverso un coinvolgimento determinato di chi non vuole più vedere la Sardegna ridotta in uno stato di totale subalternità.
Attualmente sono molteplici le iniziative (la lotta contro l’imposizione delle trivelle, i piani energetici, la tutela dei beni culturali e archeologici, l’alternativa alle attività minerarie) che richiedono un impegno di tutti perché siano i sardi a decidere del loro futuro.
Giusto chiedere l’approvazione di leggi che stabiliscano queste regole, ma finché le rivendicazioni non saranno accompagnate dalla partecipazione popolare sarà difficile modificare le tendenze attuali.
*Immagine: Gargiulo, La rivolta di Masaniello (Napoli, Museo di S.Martino)
12 Novembre 2014 alle 19:21
Caro Marco,
quanto sono vere e piene di saggezza le tue parole! Il paradosso sardo è che oggi esistono tanti indipendentisti e sovranisti e mai l’Isola è stata più asservita e dipendente. C’è un doppia dipendenza: ad una classe politica sarda screditata e, per il tramite di questa, in particolare dei partiti che capeggiano le coalizioni (PD-FI), alle centrali nazionali. In questa situazione, la tua posizione non indipendentista, ma che rivendica un’autonomia di classe e una soggettività dei ceti subalterni è mille volte avanti rispetto ai parolai indipendentisti e sovranisti alla corte del PD o di FI. Anche se per fortuna fra questi movimenti c’è qualcuno (pochi) che si batte per un’alternativa.
Questa diffusa subalternità è ancora pià grave in una fase in cui il malessere sociale è tornato ai livelli di primi anni ’50. Solo che allora c’era il Partito comunista, il Partito socialista e un sindacato forte, che organizzavano le lotte e indicavano una prospettiva. Ricordi il Congresso del popolo sardo? Ora, c’è un pieno di arroganza di potere e un vuoto di risposta, che rende ancor più urgente quella mobilitazione dal basso che tu auspichi.