Piketty e le disuguaglianze
1 Dicembre 2014Gianfranco Sabattini
La pubblicazione in lingua inglese de “Il capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty ha scatenato una ridda di commenti, recensioni e dibattiti come da tempo non si vedeva nel mondo dell’economia. La tesi di fondo, ormai nota, è che il capitalismo sia governato da forze che spingono verso la diseguaglianza e che dunque creino una contraddizione insanabile: la rendita della ricchezza – anzi, secondo Piketty, del capitale – è divenuta storicamente più alta del tasso di crescita dell’economia. Dunque, chi nel tempo, per un qualunque motivo, abbai accumulato un capitale ha trovato più conveniente indirizzane l’impiego verso forme che una volta definite “assenteiste”, in quanto sottraevano le risorse disponibili dall’impiego in attività reali.
In tal modo, la distribuzione del prodotto sociale è divenuta sempre più ineguale: i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, vanificando così il “trickle down effect”, il paradigma neo-classico secondo cui lo sviluppo economico favorisce, non solo i più ricchi, ma, a cascata, tutti gli addetti del sistema sociale. Il processo di concentrazione della ricchezza ha continuato, salvo brevi interruzioni sino alla fine del secolo scorso, allorché, con la globalizzazione e la crescente integrazione delle economie nazionali nel mercato mondiale, la pratica della ricerca della rendita anziché del profitto si è generalizzata, caratterizzando tutti i Paesi ad economia di mercato in termini di loro crescente fiannziarizzazione: la ricchezza è stata vieppiù gestita dai mercati finanziari, divenuti la “chiave di volta” del funzionamento dell’economia, attraverso operazioni speculative sui mercati immobiliari e mobiliari. E’ per questo motivo che oggi l’economia mondiale è caratterizzata dal fatto che la somma del PIL di tutti i Paesi è, su base annua, dell’ordine di grandezza di un centesimo del valore di tutte le transazioni finanziarie.
In conseguenza di ciò, la finanziarizzazione della ricchezza disponibile è divenuta nell’economia moderna la “madre delle cause di tutte le disuguaglianze”; non solo perché chi diventa sempre più ricco continua a privilegiare gli investimenti speculativi rispetto a quelli reali, ma anche perché la diminuzione degli investimenti in attività reali si associa alla tendenza di quelle già esistenti nell’acquisire una maggiore competitività nel mercato mondiale attraverso l’alleggerimento del loro carico occupazionale. Questo processo ha concorso a rendere instabile il funzionamento dei sistemi economici e, soprattutto, a distruggere posti di lavoro o ad evitare che ne fossero creati di nuovi, con conseguente diminuzione della capacità di reddito di chi non dispone di altra ricchezza che dei servizi della propria forza lavoro.
Lo scoppio della crisi dei mercati immobiliari americani è stata la classica goccia che ha fatto tracimare il vaso, nel senso che ha dato luogo ad una crisi generale – secondo molti senza uguali in passato – dalla quale si stenta ad uscire, se non tentando di percorrere la via di nuove attività speculative, non più sui mercati immobiliari, ma su quelli mobiliari; al prezzo però dell’esposizione dei sistemi economici al rischio, pressoché certo, di nuove e più devastanti “bolle” future. In questa situazione, l’egemonia dei mercati finanziari ha reso sterile gli effetti della tradizionale politica economica, ovvero delle procedure con cui, soprattutto da John Maynard Keynes in avanti, i governi riuscivano a regolare a livello macroeconomico il funzionamento delle singole economie, con finalità anticicliche e di “pieno impiego” della forza lavoro, riuscendo per questa via a contenere gli esiti negativi delle crescenti disuguaglianze distributive, quantomeno in termini di redditi percepiti.
Considerato il trend di fondo del funzionamento dei sistemi economici ad economia di mercato, l’ex consigliere della socialista francese Marie Ségolène Royal, Thomas Piketty, ritiene che, ove le crescenti disuguaglianze dovessero permanere e approfondirsi, i sistemi economici capitalisti rischiano di “divorare” sé stessi; per questo convincimento, egli è accusato dai “cani da guardia” dei mercati finanziari di aver fondato la sua teoria sugli esiti negativi dell’eccessiva concentrazione della ricchezza su una congerie di dati statistici tra loro disomogenei e su stime sbagliate. Ancora, egli è accusato, per la sua narrazione del modo di produrre del capitalismo, di riportare il dibattito politico all’Ottocento, cioè ai tempi delle oligarchie pre-industriali e pre-democratiche, dando forza all’idea che all’origine della capacità di accumulazione ci sia il fattore ereditario e non la mobilità sociale. Infine, Piketty è anche accusato di credere che la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi non sia solo una prerogativa di alcune economie capitalistiche, quali sono quelle degli USA e del Regno Unito, bensì si tratti di un fenomeno globale.
La reazione a tutto tondo alle tesi di Piketty è risultata sinora consequenziale alla paura che i “signori” del capitale finanziario dei sistemi capitalistici nutrono contro la possibilità che i risultati della ricerca dell’economista francese possano indurre i governi delle economie in crisi ad introdurre un sistema fiscale sui redditi super progressivo, con aliquote marginali fino all’80% e super tasse patrimoniali sulla parte “alta” della piramide della ricchezza; ciò perché, secondo Piketty, solo una tassazione “severa” sarebbe l’unico modo per evitare che il capitalismo degli ultra ricchi abbia definitivamente ragione della stabilità economica, della democrazia e della libertà di tutti, garantita da una generalizzata giustizia distributiva.
Ora, è senz’altro vero che le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza accumulata e in quella del reddito siano all’origine dell’instabilità economica e dell’ingiustizia distributiva, ma, si deve criticamente osservare che insistere sulle disuguaglianze e tacere sulle loro cause reali significa confondere gli effetti del fenomeno con ciò che concorre a determinarlo; se ciò può fare comodo a chi è unicamente preoccupato che le auspicate misure fiscali di Piketty possano essere adottate nell’immediato, non si deve trascurare il fatto che le sole misure fiscali, quale che sia la loro natura e misura, non sono di per sé sufficienti a garantire la rimozione delle cause della finanziarizzazione. Una correzione profonda del modo di funzionare dei sistemi che si rifanno alla logica del capitalismo richiede ben altro; in altre parole, richiede l’istituzionalizzazione di misure idonee a garantire una distribuzione della ricchezza e del reddito in grado di evitare che la rendita faccia premio sul profitto, ponendo termine alla primazia dei mercati finanziari su quelli reali.
Sin tanto che ciò non sarà realizzato, non si avrà la garanzia che i sistemi ad economia di mercato siano sottratti all’instabilità provocata dalle crisi ricorrenti, se si considera che qualsiasi sistema fiscale super progressivo sarà sempre la risultante di un rapporto di forze che all’interno dei sistemi democratici è destinato a mutare nel tempo, o quanto meno a cambiare, in funzione della maggior capacità di influenzare le decisioni pubbliche da parte di chi dispone, a titolo individuale, di una maggiore dotazione di risorse economiche. Se si tiene anche conto dei limiti di una fiscalità super-progressiva, una riforma effettiva del modo di funzionare dei sistemi economici capitalistici non implica necessariamente lo stravolgimento del sistema istituzionale vigente; lo stesso Piketty riconosce che, per eliminare le disuguaglianze, non saranno sufficienti le sole misure fiscali; ma la prospettiva di azione politica che egli propone, per la soluzione delle disfunzioni del capitalismo, rafforza il dubbio sulla validità della sua “ricetta”. Infatti, in giro per il mondo ad illustrare i risultati della sua ricerca, Piketty non manca di rilasciare dichiarazioni che hanno solo l’effetto di tranquillizzare il sonno di chi teme una più efficace regolazione dei mercati, in particolare di quelli finanziari.
Di recente, intervistato da Danilo Taino per “La Lettura” del 9 novembre, il tabloid domenicale del “Corriere”, Piketty ha avuto modo di ribadire la sua proposta di cura dei mali delle economie moderne, affermando anche di credere “nel capitalismo, nei mercati aperti e nella proprietà privata”, nel convincimento che “la proprietà privata sia parte della nostra libertà personale”, per ribadire la sua fiducia “nella necessità della tassazione progressiva del capitale”. Sembra una dichiarazione rivolta a tranquillizzare quanti hanno creduto che “Il capitale nel XXI secolo” fosse una versione aggiornata del “Capitale” di Karl Marx; ma così non è: la riprova sta nel fatto che Piketty si limita ad invocare l’introduzione di un sistema fiscale super progressivo, solo a tutela di un modo di funzionare più accettabile del capitalismo, e non invoca invece l’introduzione di regole per garantire la salvaguardia permanente della funzione sociale della ricchezza accumulata, secondo la prospettiva dell’”analisi economica del diritto” di Harold Demsetz e Ronald Coase. L’aver trascurato questo aspetto, giustifica perché Piketty sia divenuto una “star” mondiale, tanto che i tabloid di tutto il mondo mobilitati in pro del capitalismo senza regole non mancano di pubblicare sue interviste, intitolandole con “strilli” da prima pagina che più concilianti con lo status quo delle economie in crisi non potrebbero risultare.