1969. Anche in Sardegna il pci radia il manifesto

1 Dicembre 2009

08pintor.jpg

Marco Ligas

40 anni fa il mondo era in fermento e la sinistra appariva disorientata. Non riusciva a cogliere le domande di cambiamento che venivano da diverse forze sociali. In Italia, all’interno del Partito Comunista, un gruppo di compagni diede vita alla rivista il Manifesto. Il loro obiettivo era quello di modificare le posizioni dei comunisti italiani sviluppando una critica di sinistra al capitalismo e al socialismo reale.
Il gruppo dirigente del partito non condivise quella scelta e, pensando di contenere l’area del dissenso, escluse i promotori della rivista e i compagni che, in diverse città, si identificavano in quelle posizioni.

Subito dopo la radiazione Bufalini, uno dei massimi dirigenti del Pci, dichiarò che Cagliari era una delle quattro città dove ‘il frazionismo e le attività disgregatrici del gruppo del Manifesto avevano attecchito’. Il riferimento era alla sezione Lenin, la sezione definita dei disobbedienti, che da sola contava oltre 1300 iscritti, un numero ragguardevole, mai più raggiunto negli anni successivi. Vi erano rappresentati portuali, ferrovieri, telefonici, dipendenti dell’azienda di trasporto, studenti, artigiani, intellettuali. Questa forza si spiegava invece col fatto che la sezione promuoveva un’attività politica e culturale intensa. I compagni che partecipavano avvertivano un forte senso di appartenenza al partito, soprattutto si sentivano protagonisti della vita politica della sezione. Venivano convocate assemblee a cui partecipavano centinaia di iscritti e, cosa per certi versi nuova, molti simpatizzanti e persone appartenenti ad altre formazioni politiche. I temi dibattuti coincidevano spesso con gli argomenti affrontati dal comitato centrale del partito: la convocazione di una conferenza internazionale sui rapporti con la Cina e il PCC, la proposta di dar vita ad un partito unico della classe operaia, le questioni dell’autonomia regionale, il rapporti col sardismo, ecc. Più in generale pensavamo, forse accentuandone le dimensioni, che le crisi italiana e mondiale ponessero dei problemi di trasformazione radicale della società e che perciò i compiti del movimento operaio fossero entrati in una fase nuova. La rivoluzione cubana, il Vietnam, le lotte operaie e studentesche che si erano sviluppate su scala mondiale dimostravano che il capitalismo veniva contrastato in profondità da nuove componenti sociali mentre lo schieramento tradizionale della sinistra non riusciva a cogliere sino in fondo l’ampiezza della crisi e a dare risposte adeguate. Per queste ragioni ritenevamo indispensabili sia un massimo di circolazione di idee, attraverso un approfondimento delle analisi esistenti, sia un impegno militante che consentisse una presenza efficace e diffusa a livello sociale. Insomma, a nostro parere gli schieramenti sociali dovevano essere analizzati con maggiore attenzione e, se non era più possibile realizzare la rivoluzione attraverso l’insurrezione, non si doveva pensare soltanto al governo del 51%, ma si doveva predisporre e radicare nella società una maggioranza solida: soltanto quella poteva garantire la tenuta di un eventuale governo del 51%. Naturalmente non potevamo sottovalutare il ruolo che in Sardegna svolgeva la Regione Autonoma. Il tentativo che il Manifesto fece fu quello di dimostrare come la Regione non fosse di per sé uno strumento di democrazia o di progresso sociale. L’impegno della sinistra non poteva esaurirsi nella politica contestativa verso il governo centrale o nella rivendicazione di una maggiore autonomia: circoscritto in quell’ambito l’impegno diventava sterile e controproducente; era necessario rivitalizzare un rapporto con le fasce più deboli della popolazione e, principalmente, con la classe operaia che proprio in quegli anni stava assumendo una dimensione nuova e più consistente. Sottolineavamo questa esigenza non casualmente: scaturiva dalla consapevolezza che la politica della rinascita e della programmazione regionale stava diventando un impegno quasi esclusivo delle forze della sinistra. E questo impegno era tutto interno all’istituzione regionale. Il partito comunista rischiava di pagare un prezzo alto nel corso di questo processo perché nel tentativo di assumere la rappresentanza e la guida degli interessi più generali del popolo sardo sottovalutava che nella prassi della politica regionale gli interessi generali si identificavano frequentemente con quelli dei grandi gruppi industriali o con le nuove clientele. Ho dato priorità, in questa breve analisi, alle questioni relative all’Autonomia Regionale non perché le ritenga più importanti delle altre, ma perché in Sardegna hanno sempre condizionato il dibattito politico. Ma le posizioni critiche del Manifesto nella nostra città riguardavano anche la concezione del partito. Più passava il tempo e più il pci ci appariva un partito chiuso dove le relazioni avvenivano in modo unidirezionale, dal vertice alla base. Forse finché si condivide una linea politica si colgono meno i suoi limiti, ci si impigrisce e i dubbi restano ai margini della riflessione critica. Ma quando una qualsiasi scelta non risulta più convincente allora si delineano più chiaramente le sue inadeguatezze. Sta di fatto che per molti di noi diventò difficilissimo accettare che le idee e le posizioni dei compagni che operavano in periferia, se differenti da quelle dei gruppi dirigenti, trovassero ostacoli insormontabili ad affermarsi. Devo aggiungere che su questo tema un ruolo importante fu esercitato da Luigi Pintor, in Sardegna per punizione dal 1966 dopo le vicende dell’XI congresso. La sua presenza fu molto stimolante e contribuì ad orientare un gruppo di compagni che poi diedero vita al Manifesto. Il rapporto con Pintor era molto naturale: la sua immediatezza, il suo parlare chiaro, senza tatticismi, l’informarci sul dibattito esistente su scala nazionale, sulle posizioni dei diversi compagni della direzione e della segreteria, furono tutte cose che influirono notevolmente sulla nostra formazione e al tempo stesso ci coinvolsero nel lavoro politico di quegli anni. Avevamo così l’immagine di un partito non più ingessato o con l’abito della domenica, ma nella sua dimensione più autentica. Tutto ciò, ripeto, esercitò un forte stimolo in noi.  Il giudizio sull’Unione Sovietica fu un altro elemento di tensione col gruppo dirigente sardo. Nonostante ci fossero aperture importanti (per esempio il giudizio sull’invasione della Cecoslovacchia), all’interno del partito rimaneva un’ambiguità di fondo. Se veniva mosso un rilievo nei confronti dell’Unione Sovietica o dei paesi dell’est bisognava accompagnarlo sempre con qualche riconoscimento; laddove risultava difficile individuare aspetti positivi nella politica recente di questi paesi, allora occorreva fare riferimento al passato e così la critica mai diventava chiara e difficilmente si riusciva ad affrontare le cause della crisi. Questa ambiguità lasciava naturalmente segni evidenti e contraddittori nel corpo del partito. Veniva giustificata sostenendo che i vecchi militanti, cresciuti nel culto dell’URSS, non potevano accettare serenamente le critiche nei suoi confronti. Voglio citare due esempi a conferma di questa ambiguità. Ho avuto modo di parlarne in altre occasioni. Li ripropongo perché mi sembrano significativi. Entrambi si riferiscono al 1968 e all’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Mi trovavo nella federazione del Pci. In quelle ore concitate ricevemmo una telefonata da un compagno dell’hinterland. Chi rispose al telefono riferì subito il commento di questo compagno: «has biu? Ddus heus binnennaus!» (hai visto, li abbiamo schiacciati, binnenna = vendemmia). Questo compagno commentava naturalmente in modo compiaciuto l’iniziativa sovietica! Nella stanza vicina un altro compagno, dirigente del partito, commentava in altro modo: “Questi sovietici sono proprio degli imbecilli, prendono queste iniziative e non preparano tempestivamente il ricambio del gruppo dirigente cecoslovacco”. Diceva queste cose con convinzione, come se un golpe riuscito avesse potuto migliorare le sorti del socialismo e sminuire la gravità dell’invasione! Queste erano le ambiguità presenti all’interno del Pci, nonostante le posizioni ufficiali. L’allontanamento dal partito avvenuto attraverso la radiazione di alcuni compagni e l’autoradiazione di altri, fu un atto di violenza. Di questa vicenda si è parlato spesso nel corso di questi decenni; ci impose un impegno supplementare teso non solo a conservare la presenza politica nelle realtà dove avevamo consolidato un rapporto con vari compagni, ma anche a difenderci dalle accuse provocatorie e ingenerose promosse dall’apparato del partito (frazionisti, chi vi paga, andrete a finire con gli avversari, ecc.). Cercammo comunque di continuare il lavoro politico anche se consapevoli delle nuove difficoltà. Ci provammo su scala regionale, con risultati alterni, nelle nuove fabbriche (a Carbonia, ad Assemini, a Ottana e a Portotorres). Ci provammo soprattutto nei collettivi studenteschi e fra gli insegnanti. In molti comuni cambiarono i rapporti di forza tra i partiti. E fu decisivo l’intervento di tanti compagni che si erano formati culturalmente e politicamente nel movimento e nelle formazioni politiche di quegli anni (anche il Manifesto ebbe un ruolo importante in questo processo). A distanza di 40 anni, non so dire se la separazione forzata dal partito comunista abbia prodotto effetti positivi. Sicuramente gli interrogativi posti allora dal Manifesto non erano infondati, né facevano parte di un disegno frazionistico. Ma forse è difficile fare valutazioni più approfondite, entrano in gioco troppi se e le analisi e le conclusioni possono essere molteplici e contrastanti.

2 Commenti a “1969. Anche in Sardegna il pci radia il manifesto”

  1. Angelo Liberati scrive:

    (…)Devo aggiungere che su questo tema un ruolo importante fu esercitato da Luigi Pintor, in Sardegna per punizione dal 1966 dopo le vicende dell’XI congresso. La sua presenza fu molto stimolante e contribuì ad orientare un gruppo di compagni che poi diedero vita al Manifesto. Il rapporto con Pintor era molto naturale: la sua immediatezza, il suo parlare chiaro, senza tatticismi,(…)

    (…)erano i tempi dei due grandi Sardi: Pintor e Berlinguer. Altri tempi!

    Auguriamoci che non tutto sia perduto.
    Angelo Liberati

  2. Alessio Liberati scrive:

    Negli ultimi interventi ho dimenticato di inserire la premessa. Una gentile amica me lo ha fatto notare. Provvedo subito.
    ———————————————————-
    E quindi non scrivo ma sottoscrivo e condivido.
    ———————————————————-

    Sono convinto da sempre e ancor più oggi, che in Italia (di altri paesi non so), dove si scrive troppo e si legge poco, sia necessario recuperare un metodo di comunicazione che prenda spunto dal già detto, per stimolare riflessioni ed eventuali contributi. Pertanto, grazie alla tecnologia del copia/incolla (metodo molto simile al collage/décollage da me usato nel mio quotidiano lavoro di pittore), evidenzierò di volta in volta non le immagini ma i passaggi che condivido nei vari interventi sempre più pregnanti, pubblicati sul manifesto sardo.
    Nella certezza, che ad ogni uscita quindicinale del manifesto sardo, si aggiungeranno nuovi lettori,
    questa breve presentazione precederà i miei eventuali commenti agli interventi futuri.

    Un saluto a tutti
    Angelo Liberati

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI