Ascoltate la Siria
16 Ottobre 2015Paola Lepori
Pubblichiamo ‘Ascoltate la Siria’ di Paola Lepori, studiosa di mondo arabo e relazioni internazionali, scrive regolarmente di Medio Oriente su L’Indro. Nel 2011, all’alba della rivoluzione siriana, viveva nel quartiere damasceno di Muhajirin. (Red).
“Calpestare i fiori non rallenterà la primavera”
Abu Khaled al-Saaour
La situazione in Siria è un caos inestricabile fatto di sangue e macerie. È uno dei momenti più bui della storia contemporanea. Quattro anni fa, quando i Siriani hanno lanciato la loro Primavera, pieni di speranza e imbevuti di ideali non-violenti, democratici e inclusivi, non si aspettavano certo che sarebbe andata così. Invece sono stati sorpresi dalla reazione brutale, criminale del regime di Bashar al-Assad, dall’ingresso in campo di forze islamiste e dall’avvento del mostruoso Da’esh. Inoltre, sono rimasti delusi dalla sostanziale indifferenza delle democrazie occidentali che non hanno mosso un dito per sostenere la loro più che legittima aspirazione a libertà e dignità.
Tutto questo è iniziato con bambini che scrivono sui muri di Dera’a “as-sha’b yurid isqat an-nizam” (il popolo vuole la caduta del regime), con ragazze che scrivono “hurria” (libertà) sui muri di Bab Touma, nella città vecchia di Damasco, con dimostranti che portano fiori e panini alle forze dell’ordine incaricate di sorvegliarli.
Che cosa è successo a questa rivoluzione primaverile?
Sono successe molte cose, una cronologia completa dei crimini compiuti dalle varie parti in lotta in questi quattro anni sarebbe una lista lunga e sterile. Riassumendo, è successo che il regime degli Assad ha mostrato il proprio volto mostruoso – sì, mostruoso esattamente come quello del Da’esh; è successo che alcuni Siriani, che volevano una rivoluzione armata solo di fiori – un po’ come il flower chucker di Bansky – hanno reagito alla brutalità che subivano quotidianamente imbracciando le armi; è successo che forze islamiste – a dire la verità, aiutate dal secolarista Bashar – hanno penetrato la rivoluzione; è successo che il Da’esh si è riversato in Siria portando il suo esercito di fanatici e bulldozer; non è successo che la comunità internazionale abbia reagito in maniera coerente e razionale.
Alle Nazione Unite, il Parlamento dell’Uomo, si è parlato di Siria a più riprese. L’argomento è stato affrontato di recente in un clima teso che vedeva la familiare opposizione di Stati Uniti e Russia. I primi, irresoluti e scostanti, la seconda con le idee chiarissime sul sostegno a Bashar. Così, mentre Americani ed Europei continuano ad essere disconnessi dalla realtà siriana e obnubilati dal terrore per il Da’esh, i Russi hanno lanciato la propria campagna militare. L’obiettivo dichiarato è il famigerato Stato Islamico, ma, curiosamente, i raid aerei hanno colpito anche aree controllate dai ribelli, come Hama o Idlib, danneggiando anche l’antica città siriaca di Serjilla – non solo il Da’esh se la prende col patrimonio archeologico siriano.
Torniamo un attimo alle democrazie occidentali. Ho detto che sono completamente avulse dalla situazione in Siria. Sono ossessionate dal Da’esh perché ha messo in piedi un progetto tanto mostruoso che sfugge a qualsiasi tentativo di razionalizzazione. Si tratta di qualcosa di osceno (in arabo fahesh, come lo ha definito il Principe saudita Turki al-Faisal) che, come un cancro, deve essere estirpato. Ma in verità, l’ossessione Da’esh nasce dal fatto che, a torto o a ragione, le democrazie occidentali lo percepiscono come un pericolo concreto e vicino. Esse non si sono preoccupate granché della sorte dei Siriani finché un movimento migratorio senza precedenti ha preso la via del Mediterraneo diretto in Europa. Finché il problema è rimasto circoscritto alla Siria e ai suoi vicini, non era cosa che le riguardasse.
Nel frattempo, i profughi sono diventati milioni, la maggior parte sfollati nel loro stesso paese, mentre circa 4 milioni sono rifugiati. Centinaia di migliaia di persone sono morte, e molti milioni di persone hanno perso tutto, inclusa la speranza di un paese migliore e la fiducia nella solidarietà umana. Ma questa storia non comincia nel 2011, comincia nel 1971. Comincia dal primo Assad che diventa Presidente della Repubblica Araba Siriana. C’è chi dice che il cognome di questa famiglia non fosse in origine Assad (leone) ma Wahsh (mostro), prima che Hafez lo cambiasse. Ironico. Hafez e suo figlio Bashar sono dei mostri e dei criminali, e se il primo non può più essere punito, il secondo non può certamente essere premiato per la violenza di oltre quarant’anni di regime.
Di solito, a riprova della brutalità del regime degli Assad, si citano i casi più famosi ed eclatanti come il massacro di Hama (1982) o il romanzo di Mustafa Khalifa, ‘La Conchiglia’. La realtà è che la misura della violenza fisica e psicologica del regime degli Assad la dà la vita ordinaria dei Siriani. Una quotidianità fatta di un controllo rigido, interiorizzato dalla cittadinanza, e di meccanismi di autocensura. Gli uomini delle Mukhabarat non sono come gli agenti segreti dei film americani o inglesi, si riconoscono. A volte, indossano lunghi impermeabili, a volte reggono con noncuranza un mitra mentre montano la guardia di fronte ad edifici anonimi che, tutti sanno, sono centrali delle Mukhabarat stesse. Quelli che non possono essere riconosciuti sono i delatori. Può essere chiunque, magari un passante. Bisogna stare attenti a con chi si parla, a cosa si dice, a quali siti internet si leggono e quali numeri di telefono si chiamano. Alcune conversazioni si affrontano sottovoce, nascosti in un angolo della propria casa. Se al regime viene un dubbio sulla condotta di un cittadino, sulla sua fedeltà al Presidente, lo si interroga, magari ad al-Khatib, prigione damascena, lo si tortura, lo si rinchiude, anche per decenni. Le prigioni siriane sono piene di dissidenti e di persone rastrellate a caso, ed è questo che fa più paura e illustra l’entità della violenza fisica e psicologica inflitta dal regime degli Assad alla popolazione siriana.
Se, quando si parla di Siria, ci si prendesse la briga di chiedere un parere ai Siriani, la crudeltà del regime di Bashar verrebbe al galla. Si scoprirebbe che la maggior parte dei Siriani fuggono non dal Da’esh ma da Bashar. Si scoprirebbe che gran parte della distruzione nel paese l’hanno portata le forze di Bashar e non il Da’esh. Si scoprirebbe che i Siriani sono delusi e disincantati perché hanno fatto l’amara scoperta che le democrazie occidentali non hanno mai avuto voglia non solo di aiutarli, ma nemmeno di ascoltarli. Ma siccome i Siriani non vengono interpellati, troppo spesso si leggono analisi e commenti che assolvono Bashar e allora mi torna in mente un post della giornalista Francesca Borri che, con grande amarezza, denunciava la cecità di una parte della sinistra che, intrisa di ideologia retrò, “sta con Assad perché Assad è contro gli Stati Uniti. O meglio: perché la primavera araba non è che un’operazione eterodiretta dalla CIA.” Non c’è spazio per posture ideologiche avulse dalla realtà di fronte all’abominio, la distruzione della Siria e la disfatta del suo popolo. Il posto di Bashar è di fronte a un tribunale per rispondere di crimini contro l’umanità, non a un tavolo negoziale.
29 Ottobre 2015 alle 17:39
[…] original version of this article was published in Italian on Il Manifesto Sardo on October 16, […]